LETTERA DA BRUXELLES Investimenti, il freno arriva dalle incertezze su economia e redditività dei progetti

Perché nonostante condizioni finanziarie favorevolissime su scala globale dopo la Grande Recessione gli investimenti continuano a essere deboli? Perché nelle scelte del business e degli investitori pesano negativamente l’incertezza sull’andamento futuro dell’economia e sulla redditività dell’investimento. Fattori che in Europa stanno avendo un ruolo ancora più decisivo rispetto ad altre aree economiche. E’ questa la conclusione cui arriva la Banca dei regolamenti internazionali, sulla scorta di una interessante analisi appena pubblicata. Si tratta di vedere se la ‘macchina’ del ‘piano Juncker’, con 315 miliardi mobilitati complessivamente sulla base di soli 21 miliardi pubblici (16 miliardi di garanzie europee e 5 miliardi freschi della Bei), riuscirà a controbilanciare queste due incertezze.

L’interesse dell’analisi contenuta nell’ultimo rapporto trimestrale della Bri è dato dal fatto che individua esattamente i due fattori sui quali si misurerà tra breve il Fondo europeo per gli investimenti strategici, il cui regolamento oggi sarà sul tavolo dei capi di Stato e di Governo per una ‘firma’ politica dell’operazione. Il Feis dovrebbe essere operativo da luglio e ha recentemente avuto una spinta da Francia, Germania e Italia i cui ‘fondi sovrani’ nazionali (per l’Italia la Cassa Depositi e Prestiti) entreranno in gioco con 8 miliardi a testa. Non parteciperanno direttamente al capitale del Fondo europeo, parteciperanno invece al finanziamento dei progetti partendo dalle cosiddette ‘piattaforme’ che avranno un carattere regionale o di settore. In tal modo i governi avranno la quasi-certezza che le risorse nazionali pubbliche saranno destinate a finanziare progetti di interesse nazionale (o saranno prevalentemente nazionali).

Che il basso livello degli investimenti abbia rafforzato il pessimismo sull’andamento della crescita nelle economie avanzate è cosa nota. Che la potente continuata iniezione di liquidità delle banche centrali non abbia prodotto ancora il salto di quantità e qualità sperato è altrettanto noto. Più difficile è risalire alle cause e ripartirne il peso tra i diversi fattori in gioco. La questione è piuttosto semplice: ci sono le condizioni finanziarie ottimali per investire, ma gli investimenti non ripartono. Il cavallo non beve, si diceva una volta. L’acqua non arriva. Le banche sono piene di crediti in sofferenza e devono smaltire cumuli di asset deteriorati. Questo è un punto delicatissimo che chiama in causa direttamente il funzionamento di un intero settore, quello bancario-finanziario. Di qui l’attesa che gli interventi della Bce sui titoli di Stato cambino radicalmente la situazione.

In Europa di 10 euro prestati alle imprese 8 arrivano dalle banche e solo 2 dal mercato dei capitali. Negli Stati Uniti, ha ricordato recentemente BusinessEurope, è l’opposto. Ciò è riflesso nella capitalizzazione di Borsa pari al 65% del pil nella Ue e al 138% del pil negli Stati Uniti. Lo stock di bond delle imprese nell’Eurozona è aumentato da 624 miliardi nel 2007 a 1024 miliardi nel 2014 mentre negli Usa è passato da 3828 miliardi a 5648 miliardi. Quanto al ‘venture capital’, risorsa chiave per il sostegno all’attività d’impresa e per la crescita del business, nel 2013 la ‘fetta’ Ue della torta globale dell’investimento di questo settore finanziario era del 15%, la ‘fetta’ americana era del 68%.

Se i prestiti sul mercato dei capitali sono a costi bassi “anche per i creditori rischiosi”, precisano gli economisti della Banca dei regolamenti internazionali, sono accessibili su scala globale, i mercati azionari nelle economie avanzate salgono, tutto questo, specie in Europa, ha costituito “solo un piccolo stimolo diretto all’investimento nella fase di ripresa” dalla recessione.

Due sono le spiegazioni possibili. La prima è che le imprese con le migliori opportunità di investimento non hanno fondi interni sufficienti o un accesso facile al finanziamento esterno (via banca o mercato dei capitali). Per la Bri si tratta di una spiegazione debole o quantomeno insufficiente perché “data la forte crescita delle emissioni di debito e azioni è difficile sostenere che una scarsità di fondi ha ridotto in  misura significativa gli investimenti in termini aggregati”.

Più plausible allora appare la seconda spiegazione: anche se le imprese hanno fondi interni o esterni per investire sono troppo incerte sulle condizioni economiche future e/o sui possibili ritorni in termini di profitti di misura tale da giustificare i costi (e i rischi). Condizioni finanziarie più facili non sarebbero il fattore determinante che spinge a investire.  Siamo qui in pieno territorio deflazionistico e anche in pieno paradosso (non segnalato dagli economisti della Bri): l’andamento futuro dell’economia dipende anche dalle scelte di investimento prese oggi. Se non si investe è chiaro che la ripresa avrà basi fragili.

Sulla base di una elaborazione complessa che prende in esame le variabili degli investimenti reali del business nel periodo 1990-2014 dei paesi del G7, gli economisti della Bri concludono che c’è una evidenza più forte che la profittabilità è il “driver” dell’investimento e che la riduzione dell’incertezza sull’andamento dell’economia porta a un aumento rapido dell’investimento. Si conferma che i finanziamenti a basso costo costituiscono “solo un piccolo stimolo diretto che comunque non è fuori linea” rispetto all’esperienza del passato, al contrario delle condizioni economiche attese e della preoccupazione che i profitti futuri “non siano sufficienti a giustificare il rischio di un investimento fisico irreversibile”. Ecco spiegato perché in queste settimane la Commissione e la Banca europea degli investimenti, il perno tecnico-finanziario dell’operazione Feis, insistono su un punto: per attrarre capitali privati i progetti devono essere di massima qualità e avere una prospettiva di ritorno economico. Un principio che, però, dovrà essere affiancato all’altro principio fondativo del ‘piano Juncker’: devono essere finanziati progetti che altrimenti non lo sarebbero (un caso del cosiddetto ‘fallimento del mercato’), devono essere privilegiate aree nelle quali ci sono carenze conclamate di investimenti. Questo compromesso è una sfida nella sfida.