Unione Europea, prove per un patto competitività ma la strada sarà lunga

Un nuovo patto per la competitività: è all’insegna di questo slogan altisonante che il Consiglio europeo straordinario di mercoledì 16 e giovedì 17 aprile fornirà qualche indicazione sull’agenda politica da consegnare alla prossima legislatura che scaturirà dal voto Ue di inizio giugno. Alla riunione dei capi di stato e di governo parteciperà giovedì anche l’ex premier italiano Enrico Letta per presentare il suo rapporto sul mercato interno che, insieme al rapporto sulla competitività Ue dell’ex banchiere centrale e pure lui ex premier italiano Mario Draghi preparato per giugno dopo il voto, costituirà almeno la base analitica per far compiere all’Unione europea un salto competitivo in tempi rapidi.

 Sebbene il Vertice Ue sarà assorbito non poco dall’emergenza guerra in Medio Oriente, gran parte della “due giorni” sarà dedicata all’economia, ma è già chiaro che non ci saranno grandi novità. Non c’è tema più indagato, analizzato ed evocato della competitività europea: ciò di cui si difetta, in sostanza, è il consenso tra i Ventisette su ciò che deve essere fatto, come e in quali tempi. Difficile che anche a giugno il Consiglio europeo fornisca tabelle di marcia in tal senso, visto che sarà assorbito dalle conseguenze politiche del voto europeo e, conseguentemente, dalle nomine ai vertici Ue (Commissione e Consiglio). Intanto, nella bozza di conclusioni della riunione di questa settimana si ripetono un po’ le solite cose, eccetto un’enfasi particolare sulla necessità di “migliorare il funzionamento dei mercati dei capitali europei”. La strada per definire il nuovo patto per la competitività e soprattutto per vederne i primi effetti è ancora lunga.

  Da quanto emerso, il rapporto Letta centra l’attenzione su tre terreni “essenziali per la competitività: energia, finanza e telecomunicazioni” nei quali occorre procedere celermente alla massima integrazione per garantire “sicurezza economica”; sostiene la necessità di far leva sui capitali privati attraverso l’accelerazione dell’unificazione dei mercati dei capitali, quale condizione politica per aumentare le risorse pubbliche europee anche attraverso l’emissione di debito comune allo scopo di finanziare le transizioni multiple (verde, digitale, sociale, allargamento della Ue, difesa comune). In tale contesto ipotizza da un lato un “ritorno alle origini” delle regole sugli aiuti di stato alle imprese che, ha indicato Letta in un recente incontro con la stampa, “dovrebbero essere un’eccezione”, dall’altro far sì che tendano a promuovere sempre più progetti transfrontalieri e tengano sempre più conto della dimensione globale del business (terreno sul quale l’Antitrust europeo è da tempo impegnato sulla spinta della pressione politica specie tedesca e francese).

 Al Financial Times Enrico Letta ha detto: “Se non siamo in grado di dare una risposta alla domanda sul modo in cui finanziare la transizione verde, l’allargamento e le nuove esigenze di sicurezza, sarebbe molto, molto complicato evitare una reazione sociale e politica, se non troviamo un modo per utilizzare il denaro privato, questi bisogni non saranno coperti. Sarebbe molto complicato trovare una soluzione basata solo sul denaro pubblico”.

  In un recente incontro con la stampa a Bruxelles Letta ha spiegato che il tentativo è dare un nuovo senso all’”emergenza competitività” perché “è in corso lo scollamentodell’economia europea rispetto a quella degli Stati Uniti: dovremmo muoverci alla loro velocità, ma non è così”. Il settore finanziario è l’esempio più eclatante del divario tra le due sponde dell’Atlantico: la Bce ha stimato che ogni anno 300 miliardi di euro di risparmi europei si indirizzano verso gli Usa attratti dai rendimenti finanziari. Dice Letta: “Il nostro risparmio si trasforma in obbligazioni, negli Usa attraverso il ‘private equity’ fluisce verso l’economia americana, poi dagli Usa si torna in Europa per fare ‘shopping’ delle imprese nel continente. Un paradosso: a causa delle nostre debolezze diamo sangue e risorse a imprese che poi ci comprano”. Per questo “l’inerzia ci porterà al declino”.

 Anche la difesa fa parte di questo paradosso: Letta ha spiegato che l’80% della spesa per il sostegno militare all’Ucraina ha sostenuto l’occupazione in Corea del sud, Usa, Cina, Turchia e solo il 20% è servito per acquistare prodotti realizzati in Europa.

 Per finanziare le transizioni multiple non basteranno capitali pubblici come non basteranno i capitali privati e Letta sembra ritenere che integrando i mercati dei capitali in Europa (progetto largamente incompleto anche a causa di resistenze nazionalistiche a unificare regole di supervisione e armonizzare aspetti fiscali) è possibile ottenere una leva politica per strumenti comuni di finanziamento: “I paesi più ostili a mettere il denaro pubblico nelle casse comuni europee potrebbero esserlo un po’ meno se vedessero che c’è una grande operazione di denaro privato e che riusciamo a fare entrambe le cose insieme”.

  Nella bozza di conclusioni dell’imminente Consiglio europeo vengono indicati gli aspetti sui quali occorre costruire questa “leva”: armonizzazione dei quadri nazionali sull’insolvenza societaria e della normativa fiscale sulle società per promuovere gli investimenti azionari; rilancio del mercato europeo delle cartolarizzazioni anche attraverso modifiche normative e prudenziali; “miglioramento” (termine alquanto vago e prudente) della supervisione dei mercati dei capitali consentendo di vigilare in modo efficace sugli attori transfrontalieri dei mercati finanziari e dei capitali di rilevanza sistemica; miglioramento delle condizioni per gli investimenti istituzionali, al dettaglio e transfrontalieri in azioni e per le opzioni di finanziamento e di uscita delle scale-up (società innovative che possono già ambire a una crescita) per essere sicuri che i finanziatori possano ottenere il rimborso dell’investimento; realizzazione di un prodotto di investimento/risparmio transfrontaliero semplice ed efficace per gli investitori al dettaglio(idea sulla quale sta lavorando alacremente la Francia in queste settimane); sviluppare pensioni e prodotti di risparmio a lungo termine; rafforzare l’alfabetizzazione finanziaria.

 Nella bozza di conclusioni vengono poi indicati per sommi capi gli altri “capitoli” dell’agenda per la competitività senza novità: industria (“da decarbonizzare in modo competitivo”); energia (garantire “sovranità energetica e neutralità climatica”); economia circolare; digitale; sociale (si parla di “lavori di qualità” ma non si fa cenno alla grande questione del sostegno pubblico per mettere le popolazioni a basso e forse anche a medio reddito al riparo dagli alti costi delle transizioni che sta già minando il consenso al Green Deal); ricerca e innovazione; commercio (apertura esterna e nello stesso tempo difesa interessi Ue in presenza di pratiche sleali e reciprocità per assicurare parità di condizioni con i partner); ripetizione del vecchio obiettivo di ridurre gli oneri amministrativi per il business europeo del 25%. Recentemente la Francia ha avanzato l’idea di elevare a 500 dipendenti la soglia delle imprese (oggi a 250) che beneficiano delle esenzioni in materia finanziaria: si vedrà quanta strada potrà fare.

 Più in generale, a dimostrazione dell’impronta emergenziale per difendere la competitività Ue, il Vertice indicherà che “le tensioni geopolitiche e le misure politiche più assertive adottate da partner e concorrenti internazionali (leggasi Usa e Cina – ndr), in particolare sui sussidi, hanno messo in luce le vulnerabilità dell’Unione, mentre la produttività a lungo termine e le tendenze tecnologiche e demografiche richiedono urgenti aggiustamenti».

 A complicare il contesto c’è anche la disarmonia tra i 27 sulle relazioni economiche con la Cina da un lato e l’illusione diffusa (tutta ad uso mediatico) che l’”autonomia strategica” europea sia un gioco a rapida conclusione. Intervistato dal Financial Times il direttore finanziario della Siemens Ralph Thomas ha indicato che occorreranno decenni affinchèl’industria tedesca riduca la dipendenza dalla Cina: “Le catene del valore globali si sono sviluppate negli ultimi 50 anni. Quanto bisogna essere ingenui per credere che la situazione possa essere cambiata entro sei o 12 mesi?».