Ecofin, su sfida investimenti diagnosi condivise, per ora non le soluzioni

Diagnosi condivisa, diversità nelle soluzioni. È questa la sintesi del confronto tra i ministri finanziari e banchieri centrali europei a Gent (Fiandre orientali) avviato dopo un intervento di Mario Draghi cui è stato affidato il compito di redigere un rapporto sulla competitività Ue che implica la stesura di un’agenda di lavoro per il prossimo ciclo politico dell’Unione. Purtuttavia ci sono un paio di novità. La prima riguarda il livello di consapevolezza comune che il tema del miglioramento della posizione competitiva del continente sul piano globale deve far parte delle priorità della politica europea e ad essa è intimamente intrecciata la dimensione della sicurezza (conseguentemente della Difesa).

  La seconda novità è che pur con strumenti diversi, lo sforzo di finanziamento della doppia transizione energetica e digitale da un lato e della sicurezza continentale comune dall’altro deve avere una dimensione europea. Naturalmente, che si tratti di usare denaro e strumenti già esistenti, dal bilancio dei Ventisette alla Banca europea degli investimenti quale leva per attrarre capitali privati, o che si tratti di replicare l’emissione di debito comune come accaduto con i Pnrr, non è secondario. Però ci sono i margini per andare oltre l’ordinario: come e quando lo si vedrà più avanti. Draghi è stato molto attento a non prefigurare soluzioni: spetterà ai governi e non a lui. Però la base di partenza del confronto tra i governi sull’agenda politica europea potrebbe davvero essere la sua. In ogni caso, tra le righe del suo discorso ai ministri finanziari, tra i quesiti posti per la discussione, è stata chiara la sua propensione per soluzioni di finanziamento “a livello Ue, che fornisce un approccio unificato”.

 Quello di Draghi è un rilievo tautologico, nondimeno la scelta di usare strumenti europei per trattare problemi europei è netta. Le stesse parole le ha usate il ministro belga van Peteghem, che ha presieduto l’Ecofin. Draghi propone questo schema: in Europa occorre mobilitare capitali privati (compreso il risparmio) per finanziare immensi investimenti produttivi; non basteranno i bilanci pubblici nazionali sul cui spazio effettivo a sostegno degli investimenti non sembra poi così enorme date le regole del patto di stabilità appena rinnovate ma curiosamente da nessuno enfatizzate; a livello Ue ci sono diverse opzioni: un fondo dedicato espressamente a tale funzione, un prestito (evidentemente comune) o partenariati pubblico-privato centrati sulla Banca europea degli investimenti.

 Qui dall’analisi si passa alle scelte politiche e alla diversità di vedute. Fonti europee raccontano che il ministro tedesco Lindner è stato alquanto freddo sui nuovi strumenti possibili, in sostanza all’ipotesi di emettere debito comune come è stato fatto sotto pandemia. La Svezia è sulla stessa posizione della Germania: meglio usare i fondi europei che già ci sono, meglio riferirsi alla nuova missione della Bei ben oltre i finanziamenti a tecnologie “dual use” (doppio uso civile e militare).

 È semplice il ragionamento di chi si oppone alla creazione di una sorta di Recovery Fund 2 dedicato a rafforzare la competitività e finanziare le spese per la Difesa e la sicurezza – tutti obiettivi comuni nella Ue: il Recovery Fund è nato per far fronte a una crisi economica effettiva, oggi la Ue non è in recessione e non basta che sia tornata solo a un periodo di bassa crescita. Si scopre che, in realtà, in fondo il consenso all’Ecofin sulla diagnosi in parte è solo apparente: se è meglio prevenire le crisi e soprattutto occorre un “grande balzo” nel finanziamento di strategie vitali per l’Unione europea in cui dimensione economica e dimensione politica (di sicurezza) sono in fondo due facce della stessa medaglia, allora uno sforzo finanziario comune, condiviso, può davvero fare la differenza.

 Si vedrà come matureranno queste discussioni: certamente le decisioni sono rimandate. Il nuovo ciclo politico post elezioni (a giugno) non potrà che avviarsi, di fatti, da gennaio 2025. E già potrebbe essere troppo avanti rispetto alla conclamata esigenza di fare presto.