Circolano termini roboanti nei documenti che preparano il Vertice Ue dei capi di Stato e di Governo e circolano anche grandi incertezze, la prima delle quali riguarda ciò che riguarda il britannico David Cameron (chiederà un voto sulla nomina di Jean Claude Juncker a capo della nuova Commissione?) e se ci si avvicinerà o meno al rischio che il Regno Unito esca dall’Unione europea nel 2017. L’obiettivo della svolta pro-crescita e della svolta politica per rispondere alla crisi di consenso delle istituzioni europee sembra essere la moltiplicazione delle “unioni”: dopo quella monetaria e bancaria, “l’unione dei posti di lavoro e della competitività’, della protezione e del rafforzamento dei poteri dei cittadini, dell’energia, dell’area di liberta, giustizia e sicurezza. La creatività delle immagini è inversamente proporzionale alle indicazioni concrete che stanno emergendo alla vigilia del Vertice: la necessità di usare in modo flessibile le regole sui bilanci pubblici sarà espressa chiaramente, ma come e con quali tempi sarà regolato nei prossimi mesi. Fronte ‘flessibilista’ (Italia e Francia in primo luogo) e ‘fronte del nord’ (capeggiato dalla Germania) usano gli stessi termini ma intendono quasi sempre cose diverse. Intanto, avanza l’ipotesi di rafforzare il piano per la crescita varato due anni fa e nella fase iniziale di attuazione, magari con un nuovo aumento di capitale della Bei dopo l’iniezione recente di 10 miliardi di euro per potenziarne l’effetto leva e accelerare la partecipazione privata al finanziamento di progetti infrastrutturali.
Colpisce che nell’ultima versione del documento preparato dal presidente Ue Herman Van Rompuy – è la proposta di legislatura dei prossimi cinque anni – non ci sia alcun riferimento alla visione di un rafforzamento dell’unione economica e monetaria con l’obiettivo di una nuova capacità di bilancio, in prospettiva di una condivisione parziale, sperimentale, del debito sia pure presentati come opzioni, semplici ipotesi di lavoro. Ciò la dice lunga sul drastico livellamento delle ambizioni politiche nonostante ciò che si vuole far credere.
D’altra parte lo sforzo di oggi è chiudere sulle nomine con in livello di consenso più largo possibile senza arroventare i rapporti con il Regno Unito e fissare i paletti della svolta sulle politiche di bilancio ed economiche per sfruttare tutti i margini possibili nelle pieghe delle regole europee che resteranno quelle che sono oggi al fine di evitare il prolungamento della stagnazione economica.
Il tema della flessibilità delle regole di bilancio resta vago se non ambiguo se resta alla semplice evocazione del principio: la divergenza tra Italia-Francia e Germania riguarda le condizioni per poterla applicare non il principio. Si stanno percorrendo due sentieri paralleli. Il primo riguarda l’approfondimento dei testi legali che sorreggono la ‘governance’ economica: dal regolamento del 1997 via via emendato al ‘six’ e al ‘two pack’ con le regole del debito e le sanzioni. Il secondo riguarda il rafforzamento della spinta finanziaria ai grandi progetti europei che possono stimolare la domanda.
L’Italia punta l’attenzione sull’articolo 5 del regolamento 1466/97 con le correzioni del 2011 e in particolare su venti righe che possono essere la leva per tenere strettamente collegate azione sul bilancio e azione per le riforme strutturali. Il passaggio sotto osservazione è questo: “Nel definire il percorso di avvicinamento all’obiettivo di bilancio a medio termine per gli Stati membri che non l’hanno ancora raggiunto e nel consentire una deviazione temporanea da tale obiettivo per gli Stati membri che l’hanno già conseguito, a condizione che sia mantenuto un opportuno margine di sicurezza rispetto al valore di riferimento per il disavanzo e che si preveda che la posizione di bilancio ritorni all’obiettivo a medio termine entro il periodo coperto dal programma, il Consiglio e la Commissione tengono conto soltanto dell’attuazione di importanti riforme strutturali idonee a generare benefici finanziari diretti a lungo termine, compreso il rafforzamento del potenziale di crescita sostenibile, e che pertanto abbiano un impatto quantificabile sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche”. Agli Stati che “attuano” tali riforme (non che semplicemente le annunciano) “è consentito di deviare dal percorso di aggiustamento verso il loro obiettivo di bilancio a medio termine o dall’obiettivo stesso, con una deviazione che rispecchi l’importo dell’incidenza incrementale diretta della riforma sul saldo delle pubbliche amministrazioni, a condizione che sia mantenuto un opportuno margine di sicurezza rispetto al valore di riferimento del disavanzo”.
Altrettanta attenzione viene data ai principi indicati dalla Commissione europea per applicare la ‘clausola sugli investimenti’ che permette a certe condizioni di scontare la spesa per progetti infrastrutturali di carattere europeo co-finanziati dalla Ue dal calcolo del deficit ai fini della valutazione dell’aggiustamento. Tale ‘sconto’ implicherebbe la concessione di più tempo per raggiungere l’obiettivo di bilancio. Attualmente tra le condizioni di ammissione c’è il rispetto della regola del debito e lo stato di recessione (oltre a non trovarsi sotto procedura per deficit eccessivo). Per questi due motivi l’Italia non ne ha potuto beneficiare quest’anno. Se il riferimento alla recessione fosse sostituito dal riferimento a un periodo prolungato di stagnazione, si creerebbero più margini.
In queste ore, indicano fonti europee, l’Italia sta cercando di “strappare” qualcosa di “più specifico” nelle formulazioni dell’accordo finale per evitare la trappola di indicazioni troppo vaghe e indeterminate sulla flessibilità delle regole sui bilanci. Nel documento Van Rompuy viene indicata la necessità di “usare pienamente gli strumenti di flessibilità” e nelle conclusioni del Consiglio preparate dai diplomatici viene ribadito che il consolidamento dei bilanci deve continuare “in modo differenziato e che sia favorevole alla crescita”. Non si tratta di formulazioni nuove, ma messe insieme in questa fase rappresenterebbero una svolta. L’Italia però non è soddisfatta, teme che i contorni estremamente vaghi di questi fraseggi possa successivamente configurarsi come una classica vittoria di Pirro nel senso che, indica una fonte diplomatica, “il giorno dopo comincia una lungo braccio di ferro sulle interpretazioni da dare alle nuove interpretazioni del patto di stabilità avviando un meccanismo senza fine”. A Berlino si è preoccupati per le questioni opposte: si teme che i margini di flessibilità che possono essere previsti in presenza di riforme attuate o in corso di attuazione impediscano di rispettare la regola dell’abbattimento del debito.
Neanche la Francia è soddisfatta. “Le discussioni su tali contenuti non saranno facili”, ammette una fonte europea impegnata nei negoziati. Francopis Hollande ha messo sul tavolo una specie di ‘New Deal’ per l’Europa: il suo piano include investimenti per 1200 miliardi di euro (pari a 10 piani Marshall ai valori di oggi e al piano americano anti-Grande Depressione negli anni Trenta) per infrastrutture nei settori energia, trasporti e digitale, qualificazione dei giovani, salute. Non tutti i soldi devono essere pubblici: entrano in gioco le agenzie europee e la Banca europea degli investimenti, ma entrano in gioco anche i capitali privati con i ‘project bond’. Se ne parla da due anni: il piano pro-crescita del 2012 deve ancora essere attuato, non sono misure che danno risultati nel breve periodo.
Ad un certo punto i sentieri di una nuova interpretazione delle regole dei bilanci (tutta da precisare) e dei maggiori investimenti dovranno intrecciarsi dato che la spesa pubblica per tali progetti di interesse europeo potrebbe essere ‘scontata’ dagli aggiustamenti richiesti per la finanza pubblica. Quantomeno è grossomodo questo il meccanismo al quale stanno lavorando Italia e Francia.