La decisione Onu di autorizzare il ricorso all’azione militare contro il regime libico (eccetto che sul terreno). La tragedia giapponese con gli effetti sia sull’economia mondiale ed europea che sulle scelte energetiche dei paesi del vecchio continente. La risposta dell’Eurozona per mettersi al riparo dalla crisi del debito sovrano. I problemi più gravi del momento si infileranno nell’imbuto comunitario lunedì prossimo 21 marzo. Sono i lati di un ‘triangolo maledetto’ che sta smorzando il già scarso ottimismo sulla ripresa economica in corso. Al mattino toccherà ai ministri dell’energia, ai ministri degli esteri e agli alti funzionari dei ministeri del Tesoro; nel pomeriggio ai ministri finanziari dell’Eurozona che si riuniscono nel formato ‘Eurogruppo più Dieci’ a segnalare che i ministri che non fanno parte dell’unione monetaria sono spesso associati alle discussioni che riguardano i passaggi fondamentali dell’Eurozona.
I ministri degli esteri discuteranno degli aspetti politici della risoluzione dell’Onu quando forse già una coalizione di paesi occidentali insieme con alcuni paesi arabi potrebbe aver avviato concretamente un intervento. I ministri dell’energia discuteranno non più se, ma come intendono preparare gli stress test sulle 143 centrali nucleari, prove di resistenza a terremoto, inondazioni, rotture delle forniture elettriche, attacchi terroristici. Stress test è una parola che ora va di moda nelle crisi e finora la prova di resistenza riguardava soltanto le banche. Il termine è diventato la cartina di tornasole per anticipare i rischi, un’assicurazione contro gli errori e le manipolazioni dell’oggi in finanza come nella scienza e nell’ingegneria. I ministri dell’economia dovrebbero trovare l’accordo sul modo in cui finanziare l’Efsf e l’Ems, acronimi che stanno per European financial stability facility e European stability mechanism: il primo è il Fondo anti-crisi garantito dai governi Eurozona che ha già fatto un prestito all’Irlanda, il secondo ne prenderà l’eredità dal 2013. Non solo: si pronunceranno sulla fase congiunturale alla luce del rischio Libia e del rischio Giappone.
C’è un filo che lega i tre eventi: i governi europei alle prese con grandi rischi e grandi crisi, peraltro sempre più intrecciate e interrelate, sono sempre più costretti a dare risposte comuni. Quando non riescono la crisi si aggrava, i rischi si moltiplicano. E’ vero che nel caso della risposta alla Libia l’astensione della Germania sulla risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu ha messo in evidenza la divisione tra i maggiori partner europei e aumentato la disillusione sulla possibilità stessa di una politica estera della Ue. Ma sugli effetti politici ed economici della crisi libica la Ue non ha altra scelta che definire rapidamente una strategia comune sia per associare il Nord Africa al destino dell’Europa continentale (che riguarda la gestione dei flussi migratori come gli investimenti nelle infrastrutture e nei servizi finanziari) sia per fronteggiare un periodo di prezzi alti del petrolio che potrebbe essere lungo (oltre 100-120 dollari il barile).
I ministri dell’energia e i ministri dell’economia dovranno chiarire come i governi intendono fronteggiare gli effetti del disastro nucleare in Giappone. Nessuno se la sente di minimizzare. Anche in Europa e non solo in Asia (Cina, Corea, Taiwan) i rischi arrivano dall’interruzione nella catena della produzione di manufatti sensibili per l’industria continentale componenti giapponesi per automobili ed elettronica soprattutto. La valutazione di consenso è che attualmente il costo in termini di pil sarebbe del 2% (decimale in più decimale in meno come all’epoca del terremoto di Kobe nel 1995). Secondo alcuni economisti, però, la devastazione del territorio e le rotture nel ciclo di produzione potrebbero costituire un costo pari al 3% del pil che implicherebbe una perdita di pil globale dello 0,2-0,3%.
C’è un’altra minaccia: il ritorno dei capitali nipponici in patria. Dietro Cina e Germania il Giappone resta pur sempre il terzo esportatore netto di capitali del mondo, uno dei principali detentori di titoli federali americani, da qualche mese fortemente impegnato anche nell’acquisto dei titoli dei paesi a rischio dell’Eurozona. Una ondata di vendite di obbligazioni pubbliche sui mercati farebbe aumentare i tassi di interesse con effetti negativi sulla crescita economica generale. Questo è uno dei motivi che ha spinto il G7 a frenare la corsa dello yen.
Poi c’è la questione dell’energia. Dopo il disastro in Giappone, il prezzo del petrolio (Brent) è sceso dopo aver volato verso quota 120 dollari nelle ultime settimane a causa della rivolte nordafricane. Motivo: la logica deduzione che la chiusura di sei raffinerie in Giappone dopo il terremoto farà calare le importazioni. Resta il fatto che circa un quarto dell’energia elettrica giapponese deriva dal nucleare per cui la chiusura di una dozzina di centrali renderà necessario aumentare le importazioni di petrolio e di altre risorse energetiche a cominciare dal gas naturale e dal carbone. La congiunzione di tale prospettiva e dell’assenza della Libia dal mercato petrolifero per diversi mesi fa ritenere che i prezzi del petrolio riprenderanno a salire. A ciò si aggiunga l’Europa con il freno tirato sulle centrali nucleari, la moratoria tedesca, le titubanze dell’ultima ora dell’Italia, la posizione polacca (Italia e Polonia avevano annunciato programmi per aggiungersi ai 14 paesi Ue che producono energia nucleare). Ecco perché si temono prezzi del petrolio più alti. La Russia, primo produttore di petrolio del mondo e settimo per le riserve accertate, predice addirittura un barile a 200 dollari.