LETTERA DA BRUXELLES L’austerità dei bilanci e in azienda divide l’Europa

Non fa notizia di solito il Belgio che si surriscalda per uno sciopero semigenerale indetto dal sindacato socialista (un milione e mezzo di iscritti) e dal sindacato liberale (260mila membri) contro il governo che ha deciso di limitare il rialzo dei salari per il biennio 2011-2012 a 0,3% oltre il tasso di inflazione. A questo si aggiunge il malumore montato contro l’idea franco-tedesca di cancellare l’indicizzazione dei salari considerata in Belgio un pilastro del consenso sociale e per questo immediatamente respinta ai mittenti. La protesta sindacale in Belgio è importante per due motivi. Il primo ha a che vedere con la politica: se i partiti non riusciranno a comporre un quadro stabile di governo trovando una soluzione ai laceranti contrasti tra fiamminghi e valloni, il Belgio rischia di diventare un facile bersaglio sui mercati. Il secondo motivo riguarda la temperatura sociale di questa fase post crisi: il Belgio si aggiunge ai paesi in cui stanno crescendo le tensioni sociali. Specialmente nei paesi sotto il tiro dei mercati finanziari (Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda) la tenuta sociale, la capacità di garantire il sostegno dei cittadini-lavoratori a drastiche misure di austerità nei bilanci pubblici come in azienda è una variabile fondamentale per il superamento della crisi.

 Si tratta di una variabile il cui andamento non può essere dato per scontato tanto che la parola che più frequentemente si sente ripetere nelle discussioni a livello europeo è “sostenibilità”. Sostenibilità riferita ai prestiti concessi a Grecia, Irlanda, alle misure di consolidamento dei bilanci in Portogallo e Spagna. In sintesi: se manca il sostegno popolare, nessun paese potrà ripagare i debiti. Ecco perché sul tavolo dei capi di stato e di governo non ci sono soltanto le regole di disciplina e coordinamento economico, le proposte per definire uno strumento anti-crisi finanziaria permanente, ma anche il costo dei prestiti governativi agli stati in difficoltà. Materia ostica per molti, Germania e paesi del Nord Europa, innanzitutto, ma che dovrà essere attentamente valutata.
  La Commissione europea ha appena sfornato un rapporto sullo stato delle relazioni industriali in Europa che analizza ciò che è accaduto negli anni della crisi. Ne emerge un quadro molto interessante. La Ue può essere divisa in tre grandi fronti. Si tratta di fronti molto mobili per cui un paese può trovarsi ‘storicamente’ da una parte, ma per ragioni congiunturali, cambia posizione. Un primo fronte è contraddistinto da un grado considerevole di consenso sociale bi-partisan: ne fanno parte Austria, Belgio (oggi la congiuntura sindacale è tutto fuorché bi-partisan), Repubblica Ceca, Cipro, Danimarca, Finlandia, Germania, Malta, Olanda, Polonia, Romania e Slovacchia. Un secondo fronte si contraddistingue per un grado inferiore di consenso tra partners sociali: ne fanno parte Francia, Italia, Portogallo, Regno Unito e dall’estate 2008 Bulgaria, Estonia, Grecia, Lituania, Lussemburgo, Slovenia e Spagna. Infine il fronte in cui predomina il disaccordo sociale: Ungheria, Irlanda, Lettonia, Svezia e dall’estate 2008 Bulgaria, Estonia, Lituania, Lussemburgo, Slovenia, Spagna.
  Nella risposta alla crisi sono stati raggiunti accordi dai partner sociali o tra partner sociali e governi in 11 stati: Belgio, Olanda, Francia, Spagna, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Repubblica Ceca e Slovacchia. In altri sette (Germania, Lussemburgo, Slovenia, Italia, Austria, Danimarca e Finlandia) sindacati e imprese sono stati coinvolti nella definizione di specifiche misure (si è spesso trattato di regimi di lavoro temporaneo). A questi vanno aggiunti gli accordi sindacali di settore (metalmeccanico e chimico) in Italia, Germania, Francia, Spagna, Danimarca, Svezia, Regno Unito, Polonia e Olanda. Solo in Ungheria e Irlanda il ‘dialogo sociale’ per fronteggiare la crisi non è riuscito e il caso irlandese è doppiamente critico perché l’Irlanda ha dovuto chiedere l’aiuto europeo per non evitare il fallimento e ha interrotto una tradizione ventennale di accordi tripartito imprese-sindacati-governo.
  Due sono state le fasi del dialogo sociale nel corso della crisi. Nella prima che va dal 2008 a circa metà 2009, si è registrato in linea di massima un consenso sull’urgenza di un intervento dei governi per stimolare l’economia con la sola eccezione di Irlanda, Ungheria e paesi baltici che, con una crisi economica già in stato avanzato, non avevano margini di manovra. Nella seconda fase sono emerse chiaramente due cause di dissenso. La prima, tra sindacati e imprese, riguarda le condizioni per la ripresa del business (stretto controllo dei costi del lavoro, flessibilità maggiore in azienda e nel mercato del lavoro). La seconda, tra sindacati e governi, riguarda la protezione sociale degli occupati e il mantenimento del potere d’acquisto attraverso l’estensione dei trasferimenti sociali. Al centro del dissenso ci sono dunque tre elementi: politica salariale, flessibilità del mercato del lavoro, misure per consolidare i bilanci pubblici. Ovviamente il dialogo sociale nel corso della crisi regge più o meno bene a seconda della natura e della profondità della recessione e quanto sono strutturate le relazioni industriali. La Commissione insiste su un aspetto particolare della seconda fase nella quale ci troviamo ancora: il consolidamento dei bilanci pubblici implica una ristrutturazione delle amministrazioni in tutti i paesi. “Nel momento in cui continua il confronto sulla distribuzione dei costi della crisi, c’è un rischio potenziale di aumento dei conflitti sociali dovuti al taglio della spesa pubblica specialmente là dove non c’è un effettivo dialogo sociale”, dice la Commissione. A questo va aggiunto un altro problema: mentre nella prima fase gli effetti della crisi si sono scaricati sul settore privato colpendo proporzionalmente più gli uomini che le donne, i tagli nel settore pubblico tenderanno a colpire più le donne data la struttura dell’occupazione. Segnali di una nuova tensione sindacale nel pubblico impiego ci sono già stati e piuttosto forti in Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Romania e Spagna. In sostanza, se la Ue è riuscita finora a minimizzare la perdita di posti di lavoro e l’impatto generale della crisi grazie all’azione “concertata” di imprese, sindacati e governi, l’esito della seconda fase non può essere dato per scontato.