I capi di Stato e di Governo non prenderanno una decisione sui cosiddetti "accordi contrattuali" tra gli Stati e le istituzioni Ue per impegnarsi piu' a fondo a varare riforme economiche con non meglio precisati incentivi finanziari. Nella bozza di conclusioni del Vertice di giovedi' e venerdi' si fissa l'obiettivo di raggiungere un accordo alla riunione del prossimo giugno. Non e' passata la linea tedesca di far prevalere l'elemento costrittivo dell'iniziativa, ma sul profilo e le dimensioni del nuovo strumento c'e' molta confusione. Dopo lunghe discussioni e' stato deciso di coniare un nuovo nome per allontanare i sospetti di nuove intrusioni modello Troika: partnership per crescita, lavoro e competitivita' accentuando l'autonomia degli Stati sulla possibilita' di usufruirne. La cautela e' massima perche', nell'ipotesi piu' europeista, potrebbe essere anche una via dalla quale far passare un altro esperimento di mutualizzazione delle garanzie pubbliche. Ed e' proprio quello che teme la Germania.
Da mesi si sta discutendo sul profilo degli “accordi contrattuali” e ora il tentativo è mettere le basi per una decisione meditata. Partito come uno strumento per vincolare ancora di più i paesi Eurozona al rispetto degli impegni alle riforme economiche per migliorare il potenziale di crescita, sotto spinta tedesca, molto presto il confronto ha fatto emergere i diversi approcci tra i 17. Il ‘fronte del Nord’ non vede di buon occhio un nuovo sistema che a termine potrebbe implicare un esborso di soldi o garanzie pubbliche a sostegno di impegni che gli Stati sono comunque obbligati a prendere. Italia, Francia e altri paesi come Spagna e Portogallo hanno insistito molto perché il nuovo strumento di facilitazione delle riforme non implicasse nuove forme di condizionalità (un modello Troika a bassa intensità) in aggiunta a quelle esistenti nel quadro della ‘governance’ economica.
Si parla ancora di “accordi contrattuali”: li decide liberamente ogni Stato, sono “tagliati sulle necessità” individuali di ogni economia, riguardano un numero limitato di ambiti (dal mercato del lavoro a quello dei prodotti, all’efficienza delle amministrazioni pubbliche, alle iniziative per la ricerca e innovazione, al sistema dell’istruzione, al sostegno all’occupazione e all’inclusione sociale”. Si tratta delle stesse cose di cui si parla nel ‘semestre europeo’, si tratta di pescare nel grande serbatoio delle raccomandazioni che Bruxelles prepara per ogni paese. Gli accordi contrattuali devono essere preparati dagli Stati: “home grown” sarebbe la parola magica per indicare che gli accordi contrattuali “sono disegnati dagli Stati membri con un coinvolgimento dei parlamenti nazionali, i partner sociali”, è scritto nella bozza di conclusioni del Vertice. Il linguaggio si arrotonda: non deve esserci il dubbio che si tratta di una nuova imposizione politico-economica da parte della Ue (e della Germania in particolare). Poi si dice che “devono essere discussi e concordati con la Commissione” nei contenuti e nei tempi di attuazione (nel testo viene evocato il concetto di reciprocità dell’iniziativa in base al quale, sembra di capire, governi e Commissione sono sullo stesso piano, nessuno impone qualcosa). Il Consiglio approva. Nel caso in cui c’è un sostegno finanziario “gli accordi avranno natura legale vincolante”.
Nebbia semitotale su che cosa significhi concretamente sostegno finanziario. Si parla di varie opzioni e nel documento vengono citati prestiti, garanzie, concessione di esborsi. L’opzione che sta andando per la maggiore sembra essere quella delle garanzie perché non implica il trasferimento di fondi. I prestiti facilitati a tassi inferiori a quelli di mercato sarebbero la seconda opzione non necessariamente in alternativa (esclusi per il momento esborsi una tantum di cui sarebbe complicato definire il valore). Chi fornisce prestiti o garanzie (Bei, Esm, un nuovo veicolo finanziario)? Quale impatto sull’indebitamento degli Stati? Quale grado di controllo sulle politiche? Tutto è ancora avvolto nel mistero. Cosi’ come non si sa che tipo di impatto potrebbe avere l’uso di un tale strumento: che si sappia, nessuno ha ancora elaborato una simulazione.
E’ stato certamente depotenziata l’idea di sovraccaricare gli Stati di nuovi vincoli. Man mano che si discute e si va al cuore del problema, cioè del chi e come paga, ci si accorge che un tale strumento potrebbe addirittura aprire la strada a una nuova forma di mutualizzazione dello sforzo di riforma nell’Eurozona. Ci si puo’ legittimamente chiedere: se sono necessari nuovi fondi perché non emettere mini-bond Eurozona a progetto per le riforme? Cosi’ ci si potrebbe trovare su una sponda esattamente opposta a quella a suo tempo individuata dalla cancelliera Merkel che pensava più a nuovi vincoli sulle politiche di riforma nell’Eurozona, dato che grossomodo solo il 10% delle raccomandazioni europee vengono rispettate. Ecco perché i governi hanno deciso di prendersi più tempo per confezionare la nuova iniziativa. Conviene a tutti. L’Italia è favorevole a un “pacchetto” del genere solo se è chiaro che non si tratti di condizionalità aggiuntive, che i paesi ne abbiano benefici netti, che non venga messa in discussione l’autonomia degli Stati.