Nel giorno in cui la Vallonia, dopo la Regione di Bruxelles-Capitale, ha bloccato le mani al governo belga per la ratifica dell’accordo commerciale Ue-Canada, la Commissione europea ha fatto trovare sui banconi davanti alla grande sala stampa, dove si tengono i ‘briefing’ ogni giorno, un volumetto dal titolo “Exporters’ Stories”. Sottotitolo: “Come gli accordi commerciali dell’Europa avvantaggiano imprese e comunità”. E’ un elenco interessante dei benefici dell’apertura agli scambi, anche se nulla si dice sugli effetti negativi che pure ci sono ma, a parere dell’esecutivo Ue, di quantità e intensità inferiore ai primi. Nella scheda dedicata al Belgio si parla della produzione nazionale per eccellenza: la birra. Se ne producono 18 milioni di ettolitri l’anno, di cui 11 milioni esportati. Un settore che fornisce 4500 posti di lavoro diretti e 45mila indiretti. La Federazione belga dell’industria alimentare, intanto, annuncia che in 5 anni le esportazioni di prodotti belgi di qualità in Giappone sono aumentate del 25%. Tirano cioccolato e, appunto, birra.
Il ‘manualetto’ comunitario va preso per quello che è: né più né meno di una sommatoria indicativa di casi sui benefici di accordi che puntano ad assicurare il rispetto di regole condivise, che riducono le barriere agli scambi, tariffarie e regolatorie. Il che non vuol dire che non ci sia anche l’altra facci della medaglia: però gli effetti negativi hanno a che vedere, almeno originariamente, conle trasformazioni strutturali della catena della produzione (e del valore) globale, con la struttura dell’offerta. Il commercio resta comunque un elemento essenziale della crescita. Naturalmente i 4500 posti di lavoro nel settore della birra belga (in Belgio se ne producono 1500 tipi diversi) sono il doppio di quelli che saranno cancellati a Gosselier, fra Charleroi e Bruxelles dalla multinazionale americana Caterpillar (nel cuore della Vallonia): ai valloni – e ai belgi – fa più effetto l’annuncio della Caterpillar ed è comprensibile che sia così.
Nella Ue sono 600 mila piccole e soprattutto medie imprese che esportano, rappresentano l’80% di tutto il business dell’esportazione e poco meno di un terzo del totale dell’export Ue in tutto il mondo. Nel 2015 31 milioni di posti di lavoro europei dipendevano dall’export, nel 1995 erano 18,6 milioni. Di questi 6 milioni sono in azienda piccole e medie e oltre 7,3 milioni in aziende non Ue, molte delle quali si sono stabilite nell’Unione in seguito ad accordi commerciali bilaterali.
Nel settore orientato all’export gli addetti aumentano 7 volte più velocemente delle imprese orientate al mercato nazionale: almeno questo avveniva prima del rallentamento del commercio globale. Viene calcolato che un aumento dell’1% delle importazioni europee si traduce in un calo medio dei prezzi del 3,6%. Analisi di consenso indicano che per 1 miliardo di esportazioni addizionali vale per la Ue 14 mila posti di lavoro. In Polonia, paese che sta guidando la volata al ‘made in Poland’ con una prevalente caratterizzazione nazionalistica, un posto di lavoro ogni otto dipende dalle esportazioni in paesi non Ue. In Francia la campagna per le presidenziali si gioca anche sulla difesa dei campioni nazionali a tutto spiano.
Un accordo commerciale molto rilevante con la Corea del Sud è stato al centro di forti polemiche, specie da parte dell’industria automobilistica (non tutta, ma sicuramente delle case di fascia medio-bassa, Fiat compresa). In termini aggregati i risultati di quell’accordo entrato in vigore nel 2011 vengono valutati positivamente dalla Ue. Le esportazioni nella Corea del Sud sono aumentate del 55 % e le società europee hanno risparmiato 2,8 miliardi di euro grazie alla soppressione o alla riduzione dei dazi doganali. Gli scambi bilaterali di merci sono aumentati costantemente, raggiungendo il livello record di 90 miliardi di euro l’anno scorso. Prima l’Europa registrava un disavanzo commerciale nei confronti della Corea del Sud, ora è in surplus.
Le imprese sono riuscite ad aumentare dell’11 % il valore dei servizi forniti alla Corea del Sud e a incrementare del 35 % gli investimenti bilaterali. Le vendite di automobili sono triplicate (ma ne hanno beneficiato più i produttori di fascia medio alta che quelli di fascia medio bassa).
Il conto dei profitti e delle perdite degli scambi commerciali in termini aggregati non dice come stanno i settori che subiscono la concorrenza dall’estero. Però spesso, come dimostrato dall’ampio dissenso sul negoziato commerciale con gli americani (Ttip) di parti di opinioni pubbliche in paesi chiave della Ue (in Francia e in Germania, innanzitutto) e di ampi settori governativi se non di governi interi (Francia), l’opposizione agli accordi su scala continentale riflette “diffidenza a prescindere”, indica un diplomatico europeo che si occupa di politiche commerciali. Anche quando i contenuti sono sotto negoziato e non si sa come andrà a finire.Il ‘trade’ resta un obiettivo facile in chiave anti-Ue. Anche se Bruxelles e gli Stati membri stanno mantenendo molto alto il tiro sulla difesa quando le regole globali non sono rispettate, come sulle importazioni a prezzi di dumping dalla Cina (basti pensare alla quantità di dazi europei sull’acciaio). La Ue resta convinta che Pechino non sia la capitale di un’economia di mercato e pertanto gli strumenti di difesa commerciale vanno potenziati e usati ancora più di prima.
Bruxelles respinge l’accusa di negoziare in segreto, prima con i canadesi oggi con gli americani. In gran parte a ragione. Va sempre ricordato che la Commissione agisce su mandato dei governi, non di sua propria spontanea volontà. Il problema delle opinioni pubbliche che avversano i grandi accordi resta. E insieme alle opinioni pubbliche ci sono pezzi di parlamenti, se non qualche parlamento intero. L’altro giorno il 92% di 700 imprenditori europei invitati in Parlamento da Eurochambres ha indicato – rispondendo a un sondaggio volante – di non essere a conoscenza in modo sufficiente delle implicazioni commerciali degli accordi definiti dalla Ue. Se pure loro che sono gli attori primi del commercio sono impreparati, vuol dire che nella Ue e negli Stati membri qualcosa davvero non funziona.