E’ uno slalom fra divisioni profonde Est-Ovest sull’immigrazione e fra Nord e Sud sui temi dell’economia e dei bilanci pubblici, fra le incognite di un ciclo elettorale lunghissimo che coinvolgerà cinque paesi tra cui Francia e Germania nel 2017 (e anche l’Italia con il referendum sulle modifiche alla Costituzione), appesi a Brexit e a un negoziato che non si sa quando comincerà. Il vertice dei 27 capi di stato e di governo, il primo del suo genere senza i britannici se si esclude una miniriunione a Bruxelles dopo la vittoria di Brexit, cerca di definire le tappe per superare quella che il presidente della Commissione Juncker ha definito “crisi esistenziale”. L’obiettivo è ripartire da tre per ritrovare la fiducia dei cittadini: impegni su sicurezza interna ed esterna, immigrazione, spinta agli investimenti per far crescere l’economia con la massima attenzione agli aspetti sociali e, in particolare, ai giovani. Ma restano profonde divergenze, le pressioni (specie dai paesi dell’Est, ma non solo) per spostare l’ago della bilancia verso le capitali limitando gli spazi di Bruxelles sono fortissime. Si conferma l’intesa Hollande-Merkel-Renzi e l’Italia preme di nuovo sul tema della flessibilità. Nonostante le pressioni di Mario Draghi, il rafforzamento dell’unione monetaria sparisce di fatto dal radar dei leader. Se ne parlerà a fine 2017.
Che la Ue non abbia più margini per traccheggiare è valutazioni condivisa. La parola d’ordine, indica un diplomatico europeo, è “delivery, delivery, delivery”, cioè produrre risultati condivisi, utili, visibili. In modo che quanto si realizza sia superiore alle promesse. Il problema è che, aggiunge lo stesso diplomatico europeo, “si tratta di conciliare il tentativo di tenere uniti i 27, sotto il colpo Brexit ancora da metabolizzare e, soprattutto, da gestire, e la volontà di non disperdere il progetto europeo, di avanzare soluzioni”. E’ questo il dilemma al quale oggi sarà solo abbozzata una risposta. L’apertura di almeno due nuovi ‘cantieri’ potrebbe far ben sperare: il primo riguarda il raddoppio degli obiettivi del Fondo Ue per gli investimenti straordinari (da 315 miliardi entro il 2018 a 630 miliardi entro il 2022), e un’embrione di Difesa comune o, in subordine, dei ‘paesi-che-ci-stanno’. Sicurezza ed crescita economica sono lo ‘snodo’ che tutto potrebbe tenere: non c’è sicurezza se non c’è capacità di gestire le frontiere, di fronteggiare gli attacchi terroristici, di garantire sicurezza militare, se l’economia non esce dallo stato di semistagnazione. E se l’economia non cresce non solo non ci sono prospettive per i giovani, ma non si gestisce neppure l’immigrazione. I governi perderanno consenso, il populismo e l’euroscetticismo potrebbero dilagare davvero.
La cancelliera tedesca sembra condividere la drammatizzazione del presidente della Commissione Juncker a proposito della crisi esistenziale della Ue. Indica di essere impegnata in prima persona e con convinzione sulle priorità da indicare per i prossimi sei mesi, però aggiunge che non è che si risolvono i problemi in una sola riunione a 27. Merkel prende tempo, come al solito. Il presidente Ue Donald Tusk, polacco, dice che il problema è anche di “reputazione”.
La presidente lituana Dalia Grybauskaité ricorda che c’è un percorso stretto, inevitabile: “Le priorità sono dettate dalla vita e si chiamano sicurezza, crisi dei migranti e sfide economiche, non abbiamo altra scelta che affrontarle e risolverle però non c’è l’obiettivo di prendere una decisione oggi, oggi è solo un incontro preparatorio per la riunione formale di ottobre”.
La sensazione è che i 27, o i vari gruppi di leader che di volta in volta si ritrovano insieme su argomenti diversi, si stiano ‘fiutando’ l’un l’altro per capire quali sono i margini di manovra per evitare la palude e l’autosoffocamento collettivo.
Donald Tusk invita a evitare di approfondire le divisioni. Molti leader invitano a “parlare chiaro” all’insegna del nuovo imperativo ‘se non ora quando?’. Per questo il messaggio pubblico questo pomeriggio viene definito da un altro diplomatico europeo coinvolto nella preparazione del vertice di Bratislava, “tranquillizzante, rassicurante”. Così si cercherà di “sospendere le ostilità” più evidenti per far maturare nelle prossime settimane posizioni comuni più precise. Se i paesi del Nord e quelli del Sud (fra i quali ormai nella ‘mappa’ della politica europea viene sempre più frequentemente messa compresa anche la Francia) si dividono sui temi dell’economia e dei bilanci pubblici (intensità dell’intervento pubblico e flessibilità sui bilanci), la divisione Ovest-Est riguarda l’immigrazione come l’identità. Il Gruppo di Visegrad di cui fanno parte Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia (paese ospite del vertice e presidente di turno dell’Unione europea nel secondo semestre 2016) sostiene in modo sempre più assertivo la ‘controrivoluzione europea’, cioè un’Europa più intergovernativa in cui il pallino è trattenuto dalle capitali.
Quello dell’equilibrio tra governi e Commissione europea è una delle questioni politiche centrali, però appare dissonante rispetto a una realtà che molti (quasi tutti i leader) continuano ostinatamente a mascherare: la Commissione propone, il Consiglio (cioè i governi) dispone. “Quanto più i governi sono divisi sulle scelte fondamentali, non hanno una visione comune, tanto più si riducono gli spazi della Commissione europea”, indica una fonte comunitaria.
Lo slogan “meno potere a Bruxelles” è largamente praticato, ricorda Tusk, e ora dovrebbe essere tradotto in “più responsabilità per l’Unione nelle capitali nazionali”. Qui si capisce che anche la visione dei massimi esponenti delle istituzioni europee diverge. Nella lettera di convocazione del vertice a 27, Tusk propone una visione più ‘intergovernativa’ sia pure aggiornata: da un lato, afferma che le accuse a Bruxelles sono “anche una facile scusa per i fallimenti nazionali”, dall’altro lato conclude che “un corretto equilibrio tra le priorità degli Stati membri e quelle dell’Unione risiede nelle capitali nazionali, le istituzioni (cioè la Commissione – ndr) dovrebbero sostenere le priorità concordate tra gli Stati membri e non imporre le proprie”. L’ago della bilancia va spostato nelle ‘patrie’. La Ue così come è ora continua, però, a fondarsi sul diritto di iniziativa legislativa della Commissione.
La visione di Juncker guarda al polo opposto a quello di Tusk, ma essendo l’ex premier lussemburghese un politico sperimentatissimo, continua a destreggiarsi più o meno abilmente tra i paletti politici fissati dai governi alternando mediazione a prese di posizione più ‘comunitarie’ non rinunciando ai principi costitutivi della Ue. Scontentando però gli uni e gli altri. Si è visto finora sul tema della flessibilità nell’applicazione delle regole dei bilanci pubblici, con scelte che inquietano non poco Berlino e che non sono giudicate sufficienti dal ‘fronte del Sud’, innanzitutto da Matteo Renzi che non a caso oggi ha detto che le spese per rimettere a posto le scuole in Italia dopo il terremoto vanno tolte “dalle grinfie delle regole di stabilità”.
E’ interessante confrontare le agende di Tusk e Juncker con quella di Mario Draghi, che recentemente ha invitato a “riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli”. E a completare l’unione economica e monetaria, tema che non rientra nelle priorità del prossimo anno e mezzo. Sparito. D’altra parte, più volte il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem (ministro di un paese come l’Olanda in cui le spinte populiste e pulsioni euroscettiche sono forti) ha indicato come non si debba procedere verso ulteriori tappe di integrazione quanto bensì occorre attuare gli impegni già decisi.
Referendum in Ungheria fra venti giorni sulla legittimità della ripartizione dei rifugiati tra gli Stati Ue (caso clamoroso di mancata ‘delivery’ dei governi), voto in Olanda, referendum costituzionale in Italia, presidenziali francesi (in Francia il Front National di Marine Le Pen è il primo partito che vuole indire un referendum per uscire dall’euro), politiche tedesche: dato questo ciclo politico, non c’è spazio per decisioni sul futuro dell’unione monetaria. Ma non c’è spazio neppure per scelte più ravvicinate e urgenti: come quella di creare un sistema unico europeo di garanzia dei depositi bancari, chiesto insistentemente dalla Bce per rafforzare la stabilità finanziaria della zona euro. I negoziati tra i ministri finanziari sono di fatto fermi.