Se davvero come è parso nelle settimane scorse, Christine Lagarde era la carta di riserva della cancelliera tedesca Angela Merkel per guidare la Commissione europea al posto del lussemburghese Jean Claude Juncker, l’affondo dell’attuale dg del Fondo monetario internazionale sul patto di stabilità le avrebbe sicuramente fatto cambiare idea. L’organizzazione internazionale di Washington ha detto cose che in Europa molti pensano ma quasi tutti hanno paura di dire: così come è congegnato il patto di stabilità e le regole che via via si sono accumulate per interpretarlo e renderlo più flessibile è diventato uno strumento quasi paralizzante, di difficile utilizzo, che permette interpretazioni divergenti, suscita forti preoccupazioni che ostacoli gli investimenti pubblici. La Commissione si è subito chiusa a riccio: a fine carriera (come commissario europeo) Olli Rehn ha risposto che il ‘patto’ è molto complesso perché è uno strumento “intelligente”. Ormai è chiaro, però, che la verifica dell’intero sistema di ‘governance’ economica del ‘six pack’ e del ‘two pack’ sarà sottoposto a verifica a fine anno. E’ per questo che il risultato del difficile negoziato sul programma del nuovo presidente della Commissione, di cui la flessibilità sulle politiche di bilancio è considerato da diversi governi e sicuramente dall’Italia, un elemento centrale, costituirà solo l’inizio di un processo.
Il fatto che le regole della nuova architettura della supervisione delle politiche di bilancio e macro-economiche, con il riferimento operativo alla regola del debito per l’avvio delle procedure ed eventuali sanzioni, dovessero essere sottoposte a una verifica era già noto, ma il particolare contesto politico in cui ciò è stato confermato dal presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem rende questa scadenza particolarmente importante. Anche perché tra gli addetti ai lavori a Bruxelles fino a ieri prevaleva la tesi secondo cui, in fondo, è ancora troppo presto per procedere a una effettiva verifica di un sistema che è stato applicato solo in parte, basti pensare alla regola del debito. Questo è un argomento da non sottovalutare, ciononostante è chiaro che non si può procedere ‘business as usual’.
Che non si possa procedere ‘business as usual’ è dimostrato dall’affondo Fmi sul patto di stabilità. Ha sostenuto Lagarde che “se affrontiamo la riduzione del debito pubblico solo con la riduzione del deficit, in un paese come l’Italia il rapporto debito/pil scenderebbe di 3 – 4 punti percentuali all’anno e si arriverebbe al 60% solo nel 2034”. La sola riduzione del deficit per la dg del Fondo monetario, non è sufficiente: occorre concentrarsi su un aumento del tasso di crescita per accelerare la diminuzione del rapporto debito/pil, usare la politica monetaria per combattere il protrarsi dell’inflazione debole, sostenere la domanda. Più in generale, Lagarde insiste su un punto senza però arrivare alla conclusione: i due parametri di Maastricht, il 3% del deficit/pil e il 60% del debito/pil “sono stati definiti in un periodo di crescita” a livelli che non hanno paragone rispetto agli attuali e a quelli previsti in futuro.
Nel difficile negoziato politico in corso tra i governi sulle nomine ai vertici dell’Unione europea e sulle strategie per evitare una lunga fase di stagnazione economica (le due cose sono strettamente intrecciate), l’uso delle politiche di bilancio è uno dei punti chiave. Appurato che non c’è “appetito” per cambiare le regole del Trattato, quelle dei parametri di Maastricht, e basta immaginare quali rischi si correrebbero nelle ratifiche con i referendum in diversi paesi europei a cominciare dalla Francia, si può intervenire sulla legislazione secondaria e/o sulle interpretazioni sulle quali la Commissione europea ha un certo margine di manovra. Ad esempio sugli spazi per gli investimenti pubblici a certe condizioni, che oggi sono molto strette e domani potrebbero essere un po’ più larghe. Per la verità non c’è neppure consenso per cambiare le norme del ‘six’ e del ‘two’ pack: le dichiarazioni di parte tedesca in questo senso sono chiarissime.
Si capirà di più a breve: il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan ha già cominciato il lavoro di tessitura della rete per capire in quale direzione spingere il confronto tra i ministri su nuove forme di flessibilità fondate sul principio ‘più tempo per raggiungere gli obiettivi di consolidamento contro riforme strutturali avviate”. Non promesse, ma misure effettivamente prese. È la logica degli ‘accordi contrattuali’ di origine tedesca sui quali si è arenata la discussione diversi mesi fa.
La prima condizione perché tale processo parta davvero è l’accordo tra i capi di Stato e di Governo sulla direzione di marcia che sottenderà il via libera al nuovo presidente della Commissione. Dovrebbe essere Jean Claude Juncker, che non può essere frettolosamente dipinto come un rigido partigiano dell’austerità fine a se stessa: in piena crisi del debito sovrano, nel dicembre 2010 firmò un articolo sul Financial Times con l’allora ministro Giulio Tremonti nel quale si dichiarava a favore dell’emissione congiunta di bond sovrani europei per affermare “l’irreversibilità dell’euro”. Juncker era presidente dell’Eurogruppo e parte in causa nella gestione della crisi.
La seconda condizione è che i ministri dell’economia dell’Eurozona si mettano d’accordo su una traccia di lavoro: è possibile che fra una ventina di giorni, alla riunione dei ministri finanziari di luglio, Padoan sia in grado di presentare idee più precise di quelle contenute nell’accordo sul programma di legislatura, che saranno inevitabilmente generiche per poter mettere d’accordo tutti. Non è un caso che di fronte alle critiche del Fondo monetario al patto di stabilità, Dijsselbloem abbia rinviato la discussione sulle regole dei bilanci a fine anno con una precisazione: “Io ascolto tutti i governi”. Sottintendendo che ascolta sia i “flessibilisti” che gli altri (Germania in testa).
Il presidente dell’Eurogruppo ha comunque indicato i termini del problema: sul tavolo c’è il modo di tenere conto delle riforme strutturali che richiedono tempo per essere realizzate in relazione ai target di bilancio: “Nella parte correttiva della ‘governance’ se ai paesi viene dato più tempo, come è già avvenuto, le riforme vanno anticipate, se un paese si trova sotto supervisione preventiva per il deficit strutturale si tratta di vedere quali riforme strutturali vanno tenute in considerazione”. Si tratta della stessa trama sulla quale sta lavorando il ministro Padoan. Ad un certo punto dovranno esserci indicazioni più precise, di merito. Per questo, però, molti nei ‘palazzi’ di Bruxelles ritengono che bisogna aspettare un po’.