Londra – Nelle discussioni tra i ministri finanziari del G7 e del G20 nel quadro delle riunioni primaverili di Fondo Monetario e Banca Mondiale, non dominerà la scena solo lo scontro sui dazi americani verso mezzo mondo, ci sarà anche il tema dell’attacco frontale di Trump all’indipendenza della Federal Reserve per non aver ridotto i tassi di interesse. Che si tratti del classico elefante nell’armadio, lo si vedrà, tuttavia non è un tema che viene preso alla leggera. “Se venisse compromessa la fiducia sull’indipendenza della Fed rispetto alla Casa Bianca la stessa fiducia nel dollaro e perfino il suo status di valuta di riserva globale potrebbero crollare”, sostiene il capo analista di mercato di Cmc Markets Jochen Stanzl. Per ora non è chiaro, prosegue Sanzl, se si tratti di un piano deliberato di Trump per svalutare il dollaro oppure solo di un allargamento della cerchia dei nemici dell’amministrazione Usa per riequilibrare le responsabilità degli sconquassi finanziari delle ultime settimane provocati dai dazi.
L’economista di Cmc Markets, società britannica di trading, spiega che se con i dazi Trump ha messo in pratica un approccio coercitivo verso i partner commerciali, l’indebolimento del presidente della Fed Jerome Powell “non solo aggiunge ulteriori rischi, ma supera anche una soglia critica per gli investitori”.
Una fonte europea coinvolta nelle discussioni in corso, indica che riunioni e conciliaboli a margine delle riunioni di Washington saranno preva lentemente centrati sulla ricerca di trovare bilateralmente dei punti di appiglio con i responsabili americani per usare il tempo a disposizione per ciascun paese per trovare soluzioni alternative allo scontro commerciale. Novanta giorni di tregua, peraltro parzialissima, sono tanti e pochi nello stesso tempo. Non sono all’ordine del giorno azioni comuni per fronteggiare gli effetti economici dell’instabilità geopolitica (guerre in Ucraina e a Gaza ancora aperte) ed evitare il rischio che la sterzata protezionista americana nutra irreparabilmente una fase di anarchia nella governance economica globale.
L’appello dei responsabili del Fondo monetario internazionale a “’prudenza e una migliore cooperazione” appare destinato a non avere successo visto che da parte americana non ci sono segni che vadano in tale direzione né sul modo di riavviare una politica commerciale condivisa su scala internazionale né sulla stabilità valutaria. Non a caso ha già messo le mani avanti il ministro delle finanze giapponesi Katsunobu Kato, che spera di trovare buone basi per avviare un confronto con il segretario al Tesoro Scott Bessent che superi lo scoglio dei dazi: respingendo l’accusa di Trump di aver organizzato la svalutazione dello yen per favorire l’export, Kato ha detto: “Il Giappone non manipola il mercato valutario per indebolire intenzionalmente lo yen, come dimostra il fatto che la nostra ultima azione è stata quella di effettuare un intervento di acquisto di yen”.
Nel frattempo in Europa c’è chi si interroga non solo sulla possibilità che la fuga dal dollaro possa non essere un fattore passeggero, ma se non sia anche il caso di immaginare che gli Stati Uniti, dopo aver paralizzato da molti anni l’Organizzazione mondiale del commercio, passeranno al setaccio la loro partecipazione al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale.
Non è banale che a porre il problema sia un giornale come il Financial Times. E che il settimanale britannico The Economist indichi che i due temi centrali attualmente sono ruolo del dollaro, che “per la prima volta da decenni appare vulnerabile”, il conseguente “momento dell’euro”, grazie al quale i responsabili politici europei avrebbero “una rara opportunità” perché l’architettura finanziaria che lo sorregge “è diventata più sicura”. E perchè, addirittura, le istituzioni europee, solitamente considerate una palla al piede, “appaiono ora più attraenti se confrontate con quelle americane”.
D’altra non è un gran mistero che Trump punti all’indebolimento del dollaro nonostante gli equilibrismi del segretario al Tesoro Bessent. L’economista David Lubin di Chatam House ritiene che l’obiettivo dell’amministrazione americana è “erodere lo status del dollaro nel sistema monetario internazionale nell’ambito di un tentativo di indebolirlo permanentemente rispetto alle altre valute, nella speranza che un dollaro più deprezzato possa ridurre il deficit commerciale e attrarre produttori negli Stati Uniti”. Se davvero così fosse, questa la conclusione, “il sistema monetario internazionale potrebbe entrare in una forma di anarchia che non si verificava da quando il presidente Richard Nixon scollegò il valore del dollaro dall’oro più di 50 anni fa”.
Tra l’altro va rilevato come il ruolo del dollaro come valuta di riserva globale negli ultimi dieci anni sia diminuito (dal 65% delle riserve valutarie nel 2014 al 58% nel 2024). Anche la quota del mercato dei titoli del Tesoro Usa detenuta da investitori stranieri è diminuita drasticamente (dal 50% a circa un terzo). Nello stesso periodo il deficit commerciale americano è aumentato. Ciò significa, questa la conclusione di Lubin, che “non è necessario avere una valuta di riserva per assistere a un costante deterioramento strutturale della bilancia commerciale, poiché questo è determinato solo dal divario tra risparmi e investimenti”.
Ancora recentemente il responsabile dei consulenti economici di Trump Steven Miran ha indicato che la funzione di riserva del dollaro ha causato “persistenti distorsioni valutarie” che hanno favorito il deficit commerciale insostenibile.
Chris Turner, responsabile della ricerca per Regno Unito e Ue per Ing, ritiene che il desiderio di Trump “di un dollaro più debole si è avverato, sebbene con notevoli danni collaterali all’economia globale e ai mercati azionari”. Evidenziando una divergenza tra teoria e pratica: “In teoria i dazi spingerebbero il dollaro al rialzo e Washington farebbe leva sulla nuova leva per negoziare un rafforzamento delle valute dei partner commerciali. In pratica, le prospettive di crescita degli Stati Uniti sono crollate e la forte dislocazione nei mercati azionari statunitensi ha messo in discussione il ruolo di bene rifugio del dollaro”.