Londra, 18 apr – L’imprevedibilità fa male all’economia. E nei tre mesi in cui si cercherà di trovare soluzioni alternative al “protezionismo imprevedibile e instabile” di Trump (la definizione è dell’economista Paul Krugman), ci si deve preparare a nuovi soprassalti. Non è solo il commercio a essere in gioco. L’economista Nicolò Tamberi, ricercatore al Centre for inclusive trade policy alla University of Sussex, ritiene che “non si dovrebbe escludere la possibilità che non si realizzino scenari positivi, che non andrà tutto bene”, che quanto sta accadendo fa solo parte di un gioco tattico americano: “Mentre l’Unione europea sta lavorando sul rafforzamento delle condizioni per assumersi la responsabilità nella difesa e sicurezza continentali, dovrebbe contemporaneamente ripensare la propria posizione commerciale in un contesto che non è più caratterizzato per sempre dall’esistenza di un amico dall’altra parte dell’Atlantico, ma che comprende la possibilità che si tratti di un amico che può diventare un avversario. Spero che questo non accada, tuttavia stiamo attenti a non escludere una tale eventualità semplicemente per voler essere ottimisti”.
Un paio di mesi fa, prima della “liberazione” targata Trump con la sequela di dazi contro mezzo mondo, Tamberi aveva indicato l’avvicinarsi di un rischio: il solo aumento dell’incertezza potrebbe scoraggiare le imprese dal commerciare con o dagli Stati Uniti, riducendo le esportazioni e le importazioni statunitensi “oltre l’imposizione di dazi più elevati”. Non solo: al limite, potrebbe avviarsi un ciclo di disaccoppiamento graduale del commercio fra Usa e altri paesi.
Dice l’economista dell’Università del Sussex: “Attualmente la sola cosa sicura è che gli Stati Uniti intendono colpire innanzitutto la Cina, poi tutti gli altri con minore intensità. Tuttavia la partita ingaggiata con Canada e Messico, con l’Europa e la più vasta area dei Paesi asiatici, ha aperto una dinamica le cui conseguenze resteranno a lungo. Non siamo solo in pieno teatro di ‘go and stop’, ma non si comprendono neppure i veri motivi dello strappo sui dazi. Trump vuole ridurre il deficit commerciale (dei beni mentre dei servizi, nel quale verso l’Europa colleziona un ricco surplus) e riportare lavoro manifatturiero in patria, poi informa che l’obiettivo è costringere Paesi al negoziato per strappare condizioni di commercio differenziate. Si tratta di due obiettivi contrastanti: o i dazi servono per riportare produzione in America e allora devono essere permanenti o, se sono una leva per trattare, la loro natura è temporanea”. E ancora: “Da un lato, non si reindustrializza dall’oggi al domani, si parla di investimenti a 5-10 anni e l’incertezza sulla direzione di marcia non favorisce tali pianificazioni. Certamente si ha notizia di diverse imprese che ora investono negli Stati Uniti, però spesso si tratta di decisioni in qualche modo già in cantiere o quasi”. È il caso della Tsmc, colosso dei semiconduttori di Taiwan, che investirà cento miliardi di dollari per espandere la produzione negli Usa, aumentando il piano da 65 miliardi di dollari ampiamente facilitato dalle sovvenzioni grazie ai sussidi garantiti a suo tempo da Biden. Dall’altro lato, c’è il rischio recessione, che “sembra sempre più probabile” se gli Usa non recedono dall’impostazione attuale.
A seconda degli scenari possibili delineati dal Center for inclusive trade policy (dazi generalizzati contro tutti, Regno Unito salvato, controdazi pari alla metà di quelli Usa, controdazi solo da parte di Ue, Cina e Canada), il pil statunitense calerebbe tra il 2,8 e il 3,4%, pari a una perdita di 1900-2300 dollari pro capite; perdite inferiori per Canada e Messico; seguirebbe la Svizzera (-0,7-1,1%); la Ue potrebbe perdere tra lo 0,2% e lo 0,4% del pil mentre la Cina tra lo 0,2% e lo 0,3%. Vincente la Norvegia che venderebbe più petrolio (i dazi reciproci non si applicano).
“Difficile dire se gli Usa siano più vulnerabili dell’Europa all’’escalation’ sui dazi”. Intanto c’è una fase di attesa, con la sospensione di una parte delle tariffe americane sospese e clamorose retromarce. Siamo all’inizio dei tre mesi di parzialissimo stop delle tariffe americane. “Se si presume che l’Europa riuscirà a cooperare con il resto del mondo mentre gli Usa si spostano sempre di più verso una posizione isolazionista, l’America soffrirebbe di più. La condizione è che la Ue compia una specie di riorientamento politico verso la Cina e ciò implicherebbe accettare tecnologia cinese o in alternativa diventare un effettivo motore di innovazione. Ma ciò riguarda il lungo periodo, nell’immediato gli Usa potrebbero soffrire di più, tuttavia non va sottovalutato che si tratta di una grande economia dalla quale arrivano le grandi innovazioni. Un’economia molto forte. Tutto ciò che è arrivato negli ultimi vent’anni, dallo smartphone all’intelligenza artificiale, cose che hanno cambiato le nostre vite, arriva da lì. Gli Usa sono il principale innovatore e sarà così ancora per diversi anni grazie al forte vantaggio tecnologico che spiega la crescita della produttività: se confrontati con l’Europa gli Usa registrino una crescita molto maggiore”.
Ciononostante il tema Cina c’è, “sta avanzano velocemente verso le nuove frontiere tecnologiche”, e il resto del mondo ne è tributario sia per le materie prime necessarie per l’innovazione industriale sia per tecnologie di prima grandezza (come nella filiera dell’auto elettrica). Non è un caso che sulla Cina convergano le preoccupazioni fondamentali degli Stati Uniti, dice Tamberi. “I cinesi hanno fatto un grandissimo lavoro dal Duemila in avanti riuscendo a trasformare un’economia che produceva giocattoli a un centro fondamentale per l’economia mondiale sia dal punto di vista delle risorse sia, adesso, in relazione alla frontiera della tecnologia. Pensiamo all’intelligenza artificiale cinese che sembra aver spiazzato quella americana almeno in termini di costi di produzione».
Con Pechino l’Europa potrebbe avere un serio problema: un flusso straordinario di sovraproduzione cinese importata. Non è da sottovalutare. Dice Tamberi che “non sapendo dove gli Usa vogliano arrivare, l’Europa fa bene a cercare una qualche forma di cooperazione con la Cina, verificare le aperture possibili, in qualche misura dobbiamo essere pronti all’idea che gli Usa lascino andare alla deriva i pezzi del sistema di condivisione internazionale, il pensiero corre alla lunga paralisi dell’Organizzazione mondiale del commercio. In questo caso c’è bisogno di avere un’idea di sistema comune, di una riorganizzazione di una qualche forma di cooperazione: se gli Stati Uniti se ne vanno occorre che gli ‘altri’ dialoghino e gli ‘altri’ principali sono Unione europea e Cina. In fin dei conti ci troviamo in una situazione in cui gli amici vanno tenuti stretti e i nemici ancora più stretti”.
I mercati non supereranno facilmente l’attuale incertezza. Tre mesi per negoziare sono un periodo beve per stipulare accordi commerciali e lunghissimo per mercati nervosissimi. Mentre Trump è stato costretto alla retromarcia esentando l’importazione di prodotti elettronici, prefigurando però future misure su semiconduttori, smartphone e chip, la Cina ha risposto con durezza e non deflette: ormai la “guerra” commerciale a due coinvolge direttamente terre rare e minerali critici decisivi per l’industria dell’auto e dell’aerospazio. Poi c’è l’avversione all’acquisto di titoli del Tesoro americano, ora meno percepiti come rifugio sicuro, corsi di azioni e dollaro sono scesi. A Wall Street si investe sul breve termine in assenza di chiarezza sulla direzione dell’economia, con il rischio di forte rallentamento dell’attività, lo spettro dell’inflazione da importazioni più care.
Tamberi rileva che “la politica commerciale attualmente è il fattore di incertezza più grande, che riflette un cambiamento del ruolo degli Usa finora considerato il garante di un sistema fondato sul diritto, sulle regole del commercio. L’amministrazione Trump non solo è in netto contrasto con tale ruolo, ma è pure possibilmente estraneo alle dinamiche del consenso globale”. Ma c’è poi l’incertezza geopolitica, su ciò farà per l’Ucraina, le relazioni con la Russia, il tema della difesa e della sicurezza europee: “È l’insieme di questi fattori in azione simultaneamente che si è accumulato e poi è riflesso sui mercati finanziari”. E continuerà a pesare.