Meloni a Bruxelles, primo passo per capire il senso di marcia dell’Italia

Forse è circospezione il termine più preciso per definire lo stato d’animo prevalente nelle istituzioni europee alla vigilia degli incontri che la premier Giorgia Meloni avrà domani pomeriggio a Bruxelles con la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Circospezione dovuta alla composizione e al programma politico della coalizione di governo, alla figura e alle posizioni di chi lo guida. L’attenzione è massima, tanto maggiore perché il nuovo corso della politica italiana si inserisce in un contesto di crisi plurime di carattere continentale tuttora aperte e dall’esito incerto: guerra in Ucraina, crisi energetica, rischio di stagnazione/recessione, alta inflazione, immigrazione. A parte il sostegno all’Ucraina (nonostante le ambiguità della Lega), su tutto il resto le posizioni della Ue o non sono consolidate o sono profondamente controverse (è il caso dell’immigrazione sul quale ci si aspetta che Meloni giocherà una partita molto dura, non è chiaro se all’insegna della rottura o all’insegna della ricerca di solide alleanze con i paesi ‘core’ della Ue).

Ufficialmente a Bruxelles ci si trincera da giorni dietro la cortina del “business as usual”, dal momento che è assolutamente normale che chi prende le redini di un governo di uno Stato membro dell’Unione europea cominci dalla capitale belga il suo “tour” fuori Roma: sarebbe una vera notizia se così non accadesse. Dopo Meloni arriverà lunedì a Bruxelles il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti per la riunione dell’Eurogruppo, durante la quale presenterà il programma economico del governo e, ovviamente, la nuova Nadef con gli obiettivi di deficit e debito/pil, che saranno varati venerdì dal governo. Tra l’altro, oggi Giorgetti ha incontrato a Berlino il responsabile delle finanze Christian Lindner: i due ministri hanno parlato soprattutto di energia e il Mef tiene a far sapere Giorgetti ha ricordato l’importanza dei buoni rapporti tra Italia e Germania oltrechè i numerosi interessi economici comuni. Tutt’altri toni sulla Germania rispetto a quelli sentiti dalla stessa Giorgia Meloni durante la campagna elettorale.

Mentre su sostegno all’Ucraina e risposta europea all’aumento dei prezzi dell’energia non ci si aspettano scartamenti rispetto alla linea del governo Draghi, ci si aspettano dall’Italia novità sul piano nazionale di ripresa e resilienza: il governo non ha fatto mistero della volontà di rimettere mano al PNRR alla luce delle mutate condizioni dell’economia. Non è chiaro se solo per una revisione dei costi, dato l’aumento del tasso di inflazione che mette in difficoltà le imprese impegnate nei progetti di investimento, o anche per una revisione di certe scadenze relativamente alle riforme e/o alla realizzazione degli investimenti. Si tratta di una eventualità che Bruxelles vede con sospetto tanto è vero che finora la reazione è stata fredda: vi possono essere modifiche limitate “se motivate da circostanze oggettive”, ha ripetuto in varie occasioni il commissario Paolo Gentiloni. E ancora: “Le modifiche non sono un tabù ma non saremo benevoli sui ritardi perché non è nell’interesse comune, riscrivere i piani perché c’è un nuovo governo non esiste”. Non proprio una porta spalancata. Va ricordato che un paio di mesi fa la reazione di Bruxelles all’idea portoghese di rinviare i tempi di realizzazione della spesa per gli investimenti oltre la scadenza del 2026 era stata sostanzialmente fredda.

Il rispetto del PNRR si intreccia alla gestione delle crisi economiche e finanziarie. Intanto è uno degli elementi sui quali si baserà la Bce nel momento in cui dovesse aprire lo “scudo” antispread in condizioni di pericolose turbolenze sul debito sovrano. Poi costituisce la condizione per replicare uno strumento comune di intervento economico anticrisi, in particolare per finanziare la risposta alla crisi energetica: un fronte di paesi tra cui Italia e Francia preme per un’emissione comune di bond Ue garantiti dagli stati allo scopo di concedere prestiti ai governi, ma finora la proposta non è decollata. Qualche giorno fa il ministro tedesco Lindner ha chiarito che la Germania è contraria spiegando, tra l’altro, che per diversi paesi – tra cui il suo – l’emissione di bond Ue è più costosa delle emissioni nazionali. Le antiche divisioni sul tema non sono superate e non serviranno scorciatoie né prove di forza per cambiare scenario. A meno che la situazione economica non peggiori drammaticamente.

Infine, lo schema del PNRR, cioè il rispetto degli impegni nazionali con parallela supervisione collettiva, costituisce un modello per la stessa futura “governance” economica. A breve la Commissione chiarirà la sua posizione sulla modifica delle regole di bilancio, un’anteprima di una proposta che arriverà solo a inizio 2023. Alcune cose sono già chiare: la sorveglianza sarà più stretta per i paesi a debito elevato (tra cui l’Italia), ma si uscirà dal dogma, in realtà mai messo in pratica, del taglio annuale di un ventesimo del debito/pil superiore al 60%. Si profilano piani di aggiustamento dei conti negoziati e verificati ogni anno con Bruxelles (però l’ultima parola è sempre degli stati) per garantire una riduzione progressiva dell’indebitamento in un arco di almeno quattro anni, estensibili a sette, imperniati sul rispetto di una singola regola sull’incremento della spesa pubblica. Spalmare gli aggiustamenti su tempi più lunghi di un anno avrebbe come contropartita una supervisione europea più stretta. Difficile sfuggire a tale contropartita.

In tema di economia, c’è sempre sul tavolo la questione del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), cioè della ratifica delle modifiche al trattato che lo ha istituito, modifiche contestate sia dalla Lega che da Fratelli d’Italia (all’epoca anche dal Movimento 5 Stelle). La stessa Meloni a fine 2019 presenziò a una manifestazione davanti alla sede del Consiglio europeo dichiarandosi contro la ratifica. Finora l’Italia si è riparata dietro la Germania, che non ha ratificato quel trattato perché in attesa del vaglio della corte costituzionale tedesca, tuttavia l’impegno più volte reiterato è procedere alla ratifica. Se è vero che nessuno stato è mai ricorso al Mes, per timore dello stigma dei mercati e per timore di un controllo intrusivo sulle politiche nazionali, è anche vero che con il nuovo trattato il Mes diventerebbe il “forziere” di ultima istanza per la risoluzione delle banche, pilastro non secondario per la stabilità del sistema bancario dell’area euro. Dunque, anche delle banche italiane.

Dall’incontro di domani non si attendono chiarimenti sui singoli temi. Tutto sarà all’insegna del “fair play” politico-istituzionale e solo le prossime settimane indicheranno concretamente le caratteristiche del nuovo corso politico italiano applicato all’Europa. Lo si capirà dalle varie scelte a breve, innanzitutto sull’economia, ma anche dai movimenti nello scenario politico europeo: Meloni è presidente dell’Ecr, il partito dei Conservatori e dei riformisti europei che raggruppa partiti di destra ed estrema destra, compresi il polacco Diritto e giustizia, lo spagnolo Vox e i Democratici svedesi. È forte il suo legame con il premier ungherese Orban. Si è detto e scritto molto su un “asse” Italia-Polonia-Ungheria. Meloni parla di Superstato europeo, ha criticato il fatto che gran parte del potere decisionale sia in mano alla Commissione: sono tutti elementi di convergenza con Polonia e Ungheria. Fratelli d’Italia ha sostenuto che la primazia del diritto europeo sul diritto nazionale va rivista. Si tratta di posizioni, pur non maggioritarie, che si ritrovano in molti altri paesi. Sta di fatto, in ogni caso, che essere un membro importante – e influente dato il suo peso economico e geopolitico nel continente – dell’area euro per l’Italia, che dalla moneta unica trae stabilità, dovrà fare necessariamente la differenza.