Le discussioni del Fondo monetario a Washington potrebbero dare un mano a Francia e Italia nel loro tentativo di aprire la porta a una svolta ‘flessibilista’ sui conti pubblici. Ma non è detto che alla fine sarà così. Il fatto che il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem abbia ribattuto alla dg del Fmi Christine Lagarde che vedere “seri rischi” di recessione nell’area euro “è troppo pessimista”, indica che la Germania non è sola a contrastare l’idea che ci si trova all’ultima spiaggia. Non solo: non è scampato il pericolo che Bruxelles chieda correzioni ai progetti di bilancio dei due paesi (dovranno essere inviati a Bruxelles entro mercoledì 15 ottobre). E per ora la Germania continua a resistere alla richiesta proveniente da mezzo mondo di sostenere la domanda, soprattutto dopo gli ultimi dati sull’indebolimento della crescita interna. In questo quadro si riuniranno lunedì sera a Lussemburgo i ministri dell’Eurogruppo: si potrà capire se il fronte anti-francese di un mese fa, con in testa i ministri dei paesi sotto Troika che si sono. schierati contro gli ‘sconti’ ai grandi paesi, si è indebolito o rafforzato. E quali sono i margini di manovra sui quali Italia e Francia possono contare.
L’accenno di apertura della cancelleria tedesca Angela Merkel sui fondi europei per la parte di finanziamento nazionale, probabilmente ai fini della valutazione del percorso del consolidamento dei bilanci, pure se significativo dal punto di vista politico, non ha prodotto grandi attese. Dopo la chiara soddisfazione del premier Matteo Renzi, da parte italiana adesso si sottolinea come le posizioni tra i paesi sullo scomputo dei co-finanziamenti europei dal calcolo del deficit/pil siano molto distanti anche nel caso tale operazione avvenisse in modo mirato e sulla base di fattori molto specifici.
Sul fronte delle ‘finanziarie’ 2015 che stanno per essere ultimate a Parigi e Roma, non ci sono novità a meno di accordi dell’ultima ora. Francois Hollande ha detto pubblicamente che non se n’è parlato a Milano con Merkel e Renzi. Piuttosto improbabile che sia vero. Decide la Commissione europea, ma la Commissione europea in queste settimane si trova in una paralizzante fase di transizione dalla vecchia (Barroso) alla nuova (Juncker). In mezzo c’è il ‘falco’ finlandese Jyrki Katainen che fino alla scadenza della vecchia decide sui conti pubblici, dopo vigilerà sulle strategie per la crescita e la competitività. Alla Commissione europea lamentano di essere appesi alle decisioni di Berlino. Sarebbe meglio prendesse il coraggio a due mani e gettasse sul tavolo tutto il suo peso. Ma la stessa compagine di Juncker dovrà gestire le stesse divisioni di sempre su una materia così sensibile.
Tra i tanti scenari che vengono smontati e rimontati in questi giorni sia a livello tecnico che a livello politico, uno indica che se le ‘finanziarie’ di Parigi e Roma saranno rimandate al mittente per una correzione non rispettando gli impegni sulla riduzione dell’indebitamento, toni e indicazioni sulla Germania sono destinate a diventate più crudi e diretti. Si andrebbe oltre la nota formula: investite di più per la crescita dell’economia tedesca e per la stabilità economica dell’Eurozona. Chi non ha spazio di manovra sul bilancio deve farsene una ragione alla fine, chi ce l’ha lo deve usare. Il problema è che un tale approccio non può funzionare, almeno per un paese come l’Italia, l’unico che, secondo i dati Fmi, a parte Cipro e Finlandia, si trova in recessione per tre anni consecutivi (2012-2014).
A Washington, pressato come non mai durante le riunioni autunnali del Fondo monetario e della Banca Mondiale, il ministro tedesco Wolfgang Schaeuble ha ripetuto la solita solfa: la precondizioni per la crescita nell’Eurozona è la fiducia, fiducia che “sarebbe insensato mettere ora a rischio” tanto più che incentivare la domanda attraverso un aumento della spesa pubblica “non farebbe recuperare molto”. Esattamente il contrario di quanto il Fondo monetario si è sforzato di dimostrare. Nel rapporto di previsione appena pubblicato, è stato dedicato ampio spazio agli effetti macro-economici dell’investimento pubblico sulla base di un nuovo metodo d’analisi empirica che ne stima le conseguenze a breve e a medio termine tenendo conto di un’ampia serie di variabili.
Emerge che nelle economie avanzate un aumento inatteso di investimenti pubblici pari all’1% del pil aumenta il livello del prodotto dello 0,4% nello stesso anno e dell’1,5% quattro anni dopo. Nei periodi di bassa crescita l’aumento del livello del prodotto nel primo anno è di 1,5% e del 3% nel medio termine. Ovvamente, nei paesi ad alto debito comporta una riduzione del debito/pil durante i periodi di bassa crescita. Non tutti i paesi reagiscono allo stesso modo. Gli effetti macro-economici dello ‘choc’ da investimenti pubblici sono “sostanzialmente più forti nei paesi in cui gli investimenti pubblici sono efficienti” (vengono completati secondo i temi previsti, secondo i costi previsti, producono i risultati voluti). In tali paesi l’aumento del livello del prodotto nel primo anno è dello 0,8% e del 2,6% nei quattro successivi allo ‘choc’. Nei paesi a bassa efficienza si scende a 0,2% e 0,7% rispettivamente. Altra osservazione: gli effetti sul prodotto sono maggiori se gli investimenti sono finanziati emettendo debito, +0,9% nel primo anno, +2,9% nei quattro anni successivi. Attenzione, però: è possibile che, dice il Fondo monetario, aumentando gli investimenti pubblici ricorrendo al debito in paesi già ad alto debito “possa aumentare il rischio sovrano e di conseguenza i costi di finanziamento se la produttività degli investimenti non è sicura. Ciò può condurre all’accumulazione ulteriore di debito aggravando le preoccupazioni sulla sostenibilità” finanziaria.