Una delle tante cose che distinguono Mario Draghi da tanti banchieri centrali e anche molti politici è la sua capacità di indicare delle vie di uscita prima di altri. È accaduto sul ‘patto’ per la politica di bilancio nel 2011, accade di nuovo sulla ‘governance’ per le riforme strutturali. Che non sia solo fortuna è ovvio, piuttosto sembra il modo in cui Draghi cerca di uscire dalla condizione di “isolamento” del banchiere centrale che agisce e parla a fronte delle incertezze degli altri poteri, in questo caso i governi dell’Eurozona. Ma è anche il modo per alleggerire la difficoltà della Bce a modificare la situazione con i classici strumenti della politica monetaria (tassi ultrabassi senza ripresa economica) contrastando il ripiegamento deflazionistico dell’unione monetaria. È questo il contesto in cui è maturato l’ultimo messaggio politico del presidente Bce, che ha chiesto ai governi di inventare “qualche forma di governo comune delle riforme strutturali” per la competitività e la produttività, una specie di ‘structural compact”’ dopo il ‘fiscal compact’. Sarebbe uno scatto ulteriore verso una maggiore condivisione della sovranità che, nella visione della Bce, è anche un modo per evitare il rischio di un annacquamento delle regole di bilancio. Del discorso di Draghi è stato dato molto risalto all’idea della ‘governance’ comune applicata alle riforme strutturali, molto meno al secondo messaggio: la capacità dei governi di stabilizzare l’economia “dipende da basso debito e da deficit vicini allo zero quando la produzione cresce al livello potenziale, non da più flessibilità nelle regole attuali”. Le regole vanno applicate, dice Draghi, perché questo “è il prerequisito per ogni altra forma di integrazione”.
Non si può non mettere in relazione quanto sostenuto da Draghi e le decisioni del Consiglio europeo di due settimane fa sull’uso flessibile delle regole del patto di stabilità, il tentativo dell’Italia di ricentrare l’azione Ue a sostegno della crescita passando (anche) attraverso una maggiore flessibilità delle regole di bilancio. Il presidente della Bce non entra nel merito di ciò che deve intendersi per uso della flessibilità esistente nelle regole di bilancio attuali “al meglio”. Non spetta a lui entrare nel dettaglio, ma alla Commissione europea e in parte ai governi. Posizione comoda, si può osservare, ma comprensibile. Certamente a Francoforte sono molto allarmati: è quasi un gioco delle parti. La Bundesbank preme. Il messaggio di Draghi è chiaro: dal punto di vista della banca centrale “è essenziale” che le regole del ‘fiscal compact’ sull’indebitamento siano applicate. “Tornare indietro sul consolidamento raggiunto depotenziando così le regole della credibilità sarebbe controproducente per tutti i paesi” per due motivi: il primo è che esporrebbe tutti a una maggiore vulnerabilità alle pressioni dei mercati e al contagio di choc finanziari, il secondo è che solo dimostrando la volontà di rispettare gli impegni gli Stati possono raggiungere un alto grado di fiducia reciproca che può permettere l’integrazione in altre aree. Dice Draghi: “Qualsiasi condivisione di sovranità richiede un alto grado di fiducia reciproca, in particolare sulla politica di bilancio, che è tradizionalmente considerata una prerogativa dei parlamenti nazionali”.
I due motivi richiamano altrettanti temi che Draghi non ha ricordato, ma stanno alla base della sua visione della ‘policy’ europea. Il primo tema riguarda le condizioni in base alle quali può scattare lo scudo anti-spread: incertezze sul rispetto degli impegni europei di bilancio rendono più difficile azioni di emergenza della banca centrale. Il secondo tema rimanda all’idea sulla quale Draghi si è speso in passato: per poter parlare di una unione di bilancio, di un sistema di solidarietà finanziaria, di condivisione di parte del debito, di eurobond, è necessaria appunto “fiducia reciproca”. Nella visione di Draghi, si tratta di elementi che completerebbero l’unione monetaria e una unione monetaria “completa”, che comprenda anche strumenti di solidarietà finanziaria, è la condizione perché l’intero sistema dell’euro stia in piedi.
L’idea di un “compact” sulle riforme strutturali, dal quale può nascere una ‘governance’ specifica per migliorare la competitività e la produttività non è nuova. Nel febbraio 2011 Merkel e Sarkozy proposero un ‘patto per la competitività” proprio per rafforzare il coordinamento economico della zona euro. Nelle stesse settimane venivano definite le opzioni che poi portarono al ‘fiscal compact’. Anche sulla nuova ‘governance’ Draghi si limita all’enunciazione. C’è da aspettarsi che ora fioriranno le ipotesi di lavoro. Potrebbe essere l’occasione per definire percorsi comuni di riforma strutturale delle economie di cui possono beneficiare tutti i paesi dell’unione monetaria e su questo è quasi perfetta la coincidenza con la visione del ministro Padoan. E potrebbe essere anche il modo per definire metodi di valutazione condivisi sull’impatto di tali riforme sull’economia e per via diretta o indiretta sul bilancio. Ecco una ricaduta importante dell’opzione Draghi: se è accertato che certe riforme hanno un effetto positivo sul bilancio di qui può passare l’uso flessibile del patto di stabilità. Si tratta del punto più spinoso del negoziato appena cominciato sulla traduzione concreta dell’indicazione del Consiglio europeo sulla flessibilità del patto di stabilità. Un negoziato il cui esito non è scontato. La ‘governance’ per le riforme strutturali potrebbe essere la nuova versione dei cosiddetti ‘accordi contrattuali’ (riforme in cambio di sostegno finanziario, in pratica più tempo per raggiungere gli obiettivi di bilancio a patto che il deficit/pil resti sotto il 3%), un’idea lanciata un anno fa sotto spinta tedesca, smontata perché troppo rigorista e poi arenatasi. Una ‘governance’ comune richiede però controlli effettivi, efficaci, stretti: non è detto che ci sia molto appetito per procedere in tale direzione (non tanto in Italia quanto sicuramente in Francia). E richiede soprattutto fiducia reciproca. Cosa che al momento non sembra così forte.