Fine del 'piccolo è bello'? Magari in termini non proprio così netti, certamente la micro-impresa non è più l'aspirazione, la valvola di sfogo, la dimostrazione evidente della propensione imprenditoriale. E' il nuovo fenomeno in atto in Europa, almeno in questo in linea con quanto accade negli Usa e perfino in Cina. Un fenomeno che coinvolge direttamente anche l'Italia, la patria della micro-impresa per eccellenza. Dall'ultimo sondaggio Eurobarometro risulta che solo il 37% degli europei vorrebbe lavorare in proprio mentre il 58% preferirebbe far parte dell'esercito, anche se sempre più magro, dei lavoratori dipendenti. Nel 2009 le risposte indicavano rispettivamente 45% e 49%. In Italia vorrebbe lavorare in proprio il 44%, 7 punti percentuali meno del 2009, e vorrebbe restare o entrare nei ranghi del lavoro dipendente il 49%, 10 punti in più rispetto a tre anni prima. Il motivo è semplice: crisi finanziaria e recessione hanno peggiorato le condizioni del business e aumentato la richiesta di lavoro considerato più sicuro.
Il cambiamento di prospettiva può suonare strano dal momento che l’attività delle imprese piccole, medie e grandi risente duramente della crisi. Queste non costituiscono una certezza al punto che nei giorni scorsi la Commissione europea ha lanciato un allarme: non si trovano imprenditori disponibili a rischiare. Colpa della domanda al lumicino, dell’accesso al credito difficile se non impossibile, del peso degli oneri amministrativi (l’Italia brilla per quelli tra i più elevati), del peso fiscale. Dato che nei prossimi anni si calcola che solo il 15% dei nuovi posti di lavoro saranno creati dalle grandi imprese, si punta tutto sulle piccole e medie, sulla dimensione micro. Bisogna intendersi, però. La definizione europea ‘micro’ è relativa a un’impresa nella quale lavorano meno di 10 persone e il cui fatturato o il totale del bilancio annuale non supera 10 milioni di euro. La piccola impresa ha un organico inferiore a 50 dipendenti con fatturato o bilancio non superiore a 10 milioni di euro. La media ha un organico 250 adetti, fatturato non superiore a 50 milioni di euro, il totale di bilancio annuale non superiore a 43 milioni di euro). Il fenomeno illustrato da Eurobarometro riguarda l’aspirazione a mettere in piedi un’impresa individuale e tutt’al più familiare in cui il lavoratore-imprenditore è il solo responsabile della gestione, il rischio è esteso a tutto il patrimonio personale, la responsabilità illimitata. E’ evidente che in tempi di crisi non possa essere considerata una panacea.
In Italia il cambiamento è più pronunciato che altrove tanto che si è avvicinata ai valori medi europei. Quattro italiani su 10 dichiarano di aver paura del rischio di fallire (contro il 43% a livello Ue); tre temono di perdere proprietà dell’eventuale impresa e la casa; un quarto dei sondati è bloccato dal rischio di avere un reddito irregolare. In Europa ci sono grandi differenze: il lavoro in proprio è altamente desiderato in Lituania e Grecia, l’opposto in Svezia, Finlandia e Danimarca (paesi in cui il Welfare State funziona a pieno ritmo). In Germania non ‘tira’ molto, ma lì è il sistema delle imprese a ‘tirare’ piuttosto bene almeno rispetto a quanto accade altrove. Complessivamente in 19 dei 27 paesi Ue la maggioranza dei sondati preferisce essere assunto da un’impresa. Situazione completamente diversa in altre parti del mondo in cui il lavoro in proprio è generalmente più popolare: 82% in Turchia, 63% in Brasile, 53% in Corea del Sud. Nella vicina Croazia (prossimo paese Ue) risponde sì il 54%. Negli Usa la preferenza per un lavoro in azienda è aumenta dal 37% al 46%.