LETTERA DA BRUXELLES L’Eurozona non cambia strategia anti-crisi

Non ci sarà un cambiamento di rotta nella strategia dell’Eurogruppo per rispondere a breve al timore che le dure terapie di risanamento dei bilanci pubblici non possano che allontanare il momento della ripresa, spostato ormai verso fine 2013-inizio 2014. Dai lavori preparatori della riunione di lunedì non c’è alcuna indicazione in questo senso. La Commissione europea ha continuato negli ultimi giorni a battere sullo stesso tasto: è cruciale continuare le riforme, non è il tempo per crogiolarsi sugli allori per il fatto che le tensioni sui mercati sono alle spalle. Vale per tutti i paesi sotto programma, per la Francia e anche, naturalmente, per l’Italia in piena campagna elettorale. Per i ministri finanziari l’area euro si trova adesso “sulla strada del ritorno alla normalità”, ma la situazione è ancora molto fragile.



  Più chiari di tutti sono stati due commissari europei. Il responsabile degli affari economici Olli Rehn, che tiene le redini della supervisione su bilanci e politiche economiche, ha spiegato che non ritiene accettabili le conclusioni, ultimamente un po’ annacquate, tratte dalle analisi del Fondo monetario internazionale sull’impatto dei tagli ai bilanci pubblici troppo a lungo sottostimato. Il motivo è che va tenuto conto del peso che ha la fiducia nel determinare l’andamento dell’economia in termini quantitativi, nello spostare cioè il comportamento di consumatori e business dall’attendismo o dallo ‘sciopero’ a decisioni di spesa e investimento. Fiducia sulla capacità dei governi di guidare il processo di riforme strutturali: più concorrenza, rendere il contesto sociale favorevole al business, passare dalla tassazione sul lavoro alla tassazione sull’energia, sulle transazioni finanziarie, su certi consumi. L’altro commissario è Michel Barnier, responsabile del mercato interno, che si occupa della regolazione finanziaria. Ha avvisato che “occorreranno anni prima di poter tornare ai livelli di crescita precedenti la crisi”. Aggiungendo che avvitarsi nelle illusioni protezioniste e populiste fa male non solo a un paese, ma a tutta l’Europa: “Vediamo bene che le spinte populiste e protezioniste si sviluppano come mai è accaduto in passato: la prima vittima è il mercato unico proprio mentre il mercato unico è la nostra migliore possibilità per uscire dalla crisi”.
  Troppo facile tirare contro Bruxelles. Dato che, per dirla con Barnier, “non è Bruxelles che ha indebitato la Grecia, il Portogallo o l’Irlanda”.
  Tutto vero, ma che cosa fornisce in cambio Bruxelles? E’ un fatto che i vari pacchetti di misure confezionate per stimolare la crescita non rappresentano sostanziali novità. A parte la ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti per 10 miliardi (in corso), la Ue ha sostanzialmente ri-confezionato fondi già stanziati. “Lo sappiamo tutti, non c’è molto che l’Unione possa fare sulla crescita in modo diretto”, indica una fonte Ue. I commissari europei si riuniscono in seminario per discutere di industria e competitività: non sembra ci siano nuove grandi idee. Circola l’ipotesi di far diventare il Consiglio Ue sulla competitività il ‘motore politico’ di un confronto permanente tra i ministri dell’industria, dell’ambiente, del lavoro, degli affari europei, per coordinare le risposte alla stagnazione/recessione e alle tante crisi che esplodono ora qui ora là. Si vuole far leva sulle politiche commerciali, che sono in molti a dirlo adesso, non possono essere più “ingenue”.
 Il presidente della Ue Herman Van Rompuy vorrebbe che nella riunione del 7-8 febbraio dedicata al bilancio pluriennale europeo (dopo il mancato accordo in dicembre) i capi di Stato e di Governo affrontassero in termini politico-strategici proprio la questione commerciale nel momento in cui l’Europa è impegnata a confezionare paese dopo paese una serie di accordi di libero scambio. Ora sono di scena i negoziati con il Giappone e gli Stati Uniti cui sono legati una quota importante del futuro pil europeo. Il rischio è che se si discute in termini generali di commercio, la Ue si divida nettamente tra chi ha interesse in una forte proiezione esterna e si trova nella fascia nobile della specializzazione produttiva (come la Germania) e chi sta molto più in basso (come anche l’Italia). Un’altra leva può essere il cambio. Ma in questi giorni è emersa una divergenza. Mentre alcuni governi Eurozona vorrebbero un euro non così apprezzato a 1,33-1,34 sul dollaro (ha lanciato un allarme il premier lussemburghese Juncker, per poco ancora presidente Eurogruppo), la Bce ha subito raffreddato tale ipotesi ricordando che nell’ultimo mese l’euro si è apprezzato solo “lievemente in un contesto di bassa volatilità e di miglioramento del clima di fiducia degli investitori verso l’Eurozona”. Il 9 gennaio il tasso di cambio effettivo nominale dell’euro, misurato rispetto alle valute dei venti partner commerciali più importanti, superava dello 0,8% il livello del primo dicembre 2012 ed era inferiore dello 0,3% rispetto a un anno prima. In ogni caso se è da 11 mesi che l’euro non superava 1,34 dollari, negli ultimi tre anni la media del cambio è stata di 1,33 dollari. Il problema è che per alcuni paesi il cambio euro/dollaro va bene così, per altri no. Secondo Morgan Stanley la Germania sarebbe a suo agio anche con un euro a 1,53 dollari, ma per l’Olanda il cambio ‘giusto’ sarebbe 1,23, per l’Italia 1,19, per la Grecia 1,06. Anche le diverse valutazioni sull’andamento dell’euro mostrano che si naviga ancora a vista.