LETTERA DA BRUXELLES Meno pessimismo, ma azione governi non spinge ancora la crescita

L’anno si chiude con una nota di ottimismo o di minor pessimismo che viene da Berlino. Il ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble è convinto che il peggio è alle spalle. L’economia tedesca resisterà anche se più grazie al commercio con Usa e Asia che non grazie alla ripresa dell’Eurozona annunciata verso fine 2013 e comunque di scarso spessore; la Grecia non deraglierà perché il governo in carica sa che non esiste alternativa alla dura terapia concordata per ottenere aiuto; ce la farà anche la Francia, ultimamente al centro dell’allarme del Fondo monetario internazionale. Purtroppo, però, la riduzione dei deficit pubblici e le riforme strutturali avviate contemporaneamente nei paesi sotto il tiro dei mercati non hanno dato ancora risultati visibili in termini di ripresa dei fattori di crescita con il rischio che si rafforzino le pulsioni populiste sia nei paesi sotto elezioni (Italia compresa) sia altrove.



  La Commissione europea stima che la crescita dell’Eurozona nel 2013 sarà dello 0,1%, dopo -0,4% quest’anno. Il Fondo monetario internazionale indica +0,2%. Ci vuole altro per parlare di svolta, livelli del genere possono indicare solo che il momento più duro è passato e che la risalita sarà lunga, faticosa e probabilmente soggetta a zig zag, pause, tentativi di ripartenza. Il lato positivo è che rispetto a un anno fa e soprattutto a tre anni fa, quando si è scatenata la grande crisi del debito sovrano, i governi hanno più chiaro il percorso da compiere. Meglio: devono solo mettere in pratica quanto hanno deciso. Sulla Grecia come sulla Spagna, sulle misure di ‘governance’ economica come sulla rapida costruzione della vigilanza bancaria sotto l’egida della Bce, sull’uso pieno, visibile e costante di tutta la flessibilità nell’applicazione delle regole sui bilanci pubblici, che è tanta ma sempre centellinata, dilazionata secondo uno schema che ne depotenzia l’impatto generale, come se la flessibilità delle politiche di risanamento finanziario debba essere una eccezione e non una regola, naturalmente sotto stretto controllo, quando l’economia è in recessione. Lo stesso schema è stato seguito nella gestione dei salvataggi dei paesi sotto il tiro dei mercati evitando, per esempio, di considerare il Fondo anti-crisi (Efsf-Esm) il ‘prestatore’ di ultima istanza dell’unione monetaria nel timore che solo evocare tale funzione (esercitata altrove dalla banca centrale) legittimerebbe comportamenti lassisti. Così l’effetto politico del meccanismo salva-Stati è stato depotenziato anticipatamente.
 Per il 2013 le incertezze dell’Eurozona hanno molto a che vedere con le scadenze politiche: tra due mesi il voto in Italia, in autunno in Germania. Ma è una scadenza politica anche la ‘questione’ britannica: non è un caso che l’anno si chiude con un monito tedesco rivolto a Londra. “Auspichiano che il Regno Unito resti nell’Unione europea e non lo spingiamo fuori, ma ciò non significa che chiunque possa ricattarci”, ha detto il ministro Schaeuble.
  Il rischio di un successo di posizioni europee ‘disintegrazioniste’ e di diffusione di posizioni politiche populiste (in Italia) in una fase di arresto della recessione senza ripresa a breve potrebbe essere meglio fronteggiato se la strategia anti-crisi messa in piedi dall’Eurozona desse dei risultati favorevoli visibili, percepibili dalle opinioni pubbliche. L’ultimo sondaggio Eurobarometro indica chiaramente qual è la gerarchia dei timori dei cittadini sui quali viene richiesta un’azione europea: per il 53% la situazione economica in generale, per il 36% la disoccupazione, per il 32% le finanze pubbliche. Interessante a questo proposito l’analisi di ‘Flash Economie’ di Natixis che segnala come nell’Eurozona la riduzione simultanea dei deficit pubblici comporti un effetto ‘moltiplicatore’ sulla crescita più elevato di quanto previsto, cioè a una perdita maggiore di attività, le svalutazioni interne abbiano ridotto i salari reali senza miglioramenti della competitività/prezzo a causa della rigidità dei prezzi all’esportazione, le riforme strutturali con una maggiore flessibilità dei mercati dei prodotti e del lavoro non abbiano portato finora a benefici sull’occupazione, sugli investimenti o sulla crescita potenziale. Ciò significa che “la degradazione della situazione economica nei paesi della zona euro può far apparire il rischio politico, la possibilità di un successo di tesi populiste”. E’ uno scenario che, indica l’analisi di Natixis, calza a pennello per la crisi politica aperta in Italia. Di qui l’urgenza che la strategia anti-crisi Eurozona sia in grado quantomeno di “anticipare” un miglioramento delle condizioni dell’economia, miglioramento che, “malgrado le dichiarazioni ufficiali ancora non c’è”.