LETTERA DA BRUXELLES Sulla Tobin Tax gli economisti della Commissione preferiscono la cautela

Gli economisti della Dg Ecfin, il dipartimento che rappresenta il ‘cuore’ della elaborazione tecnica delle politiche di bilancio europee e del loro coordinamento (in pratica sono loro che analizzano i bilanci nazionali e scrivono le fatidiche procedure), sono molto cauti sulla tassa delle transazioni finanziarie (Tobin Tax). Al contrario dei ‘politici’ intendendo per politici i commissari europei e i loro staff. Chi decide nell’esecutivo Ue sono ovviamente i commissari e l'esecutivo Ue una proposta di Tobin Tax l'ha già presentata da tempo. La differenza di tono balza agli occhi proprio nel momento in cui 11 paesi tra cui l’Italia hanno deciso di riunirsi in una ‘cooperazione rafforzata’.

Lo spunto arriva dall’ultimo bollettino trimestrale sull’Eurozona firmato dalla direzione generale affari economici, guidata dall’italiano Marco Buti. In una rapida analisi di cinque pagine vengono presentati i risultati di una simulazione sulla base della proposta avanzata dalla Commissione, anche se amputata della tassa sulle transazioni sui prodotti derivati. Partiamo dagli effetti positivi: la tassa tende a ridurre il ‘trading’ finanziario e la volatilità dei mercati provocata dai pericolosissimi scambi ad alta frequenza, comporta alcuni guadagni di efficienza dei mercati perché cala l’ammontare delle risorse che si indirizzano verso le transazioni finanziarie speculative. Ed ecco le conclusioni negative: possono prodursi "effetti collaterali" sui costi di finanziamento, sul capitale produttivo e nel lungo termine sulla produzione. Per esempio, segnalano gli economisti di Bruxelles, anche se la tassa riguarda il mercato secondario (nella proposta della Commissione azioni, obbligazioni e derivati, sono escluse la maggior parte delle transazioni di risparmiatori e business, dai contratti di assicurazione ai mutui al credito al consumo ai servizi di pagamento alle transazioni sulle valute), si prevede un impatto negativo sul settore ‘corporate’. Questo il meccanismo: i prezzi delle nuove azioni emesse viene ridotto da una domanda più bassa dovuta ai costi più alti delle transazioni successive. Ciò "limita l’ammontare di nuovo capitale che le imprese saranno in grado di raccogliere sul mercato e nel lungo termine porta a una caduta degli investimenti e a un livello più basso del pil" (-0,3%).

Il rapporto non si pronuncia né sulla fattibilità della Tobin Tax né sulla preferenza. Chiaro che gli economisti della Dg non sono abilitati a fornire giudizi di ‘policy’ almeno pubblicamente. Però segnalano che il loro modello di analisi è costruito su una economia chiusa con una struttura finanziaria semplice, "che esclude una discussione sugli effetti di rilocalizzazione e di sostituzione" (fuga dalle ‘piazze’ degli 11 paesi della ‘cooperazione rafforzata’, ristrutturazione dei portafogli di investimento). Cioè non stanno analizzando in laboratorio l’Europa, o meglio dell’area degli 11 paesi, per quello che è, ma per quello che non è e probabilmente non sarà mai. E’ un modo elegante per condurre il lettore nel mare del dubbio: nella situazione reale, l’impatto negativo sarebbe più elevato, anche se alcuni istituti di ricerca, anche britannici, sono convinti del contrario. Raccontano a Bruxelles che anche ultimamente i più forti difensori della Tobin Tax sono stati i francesi, molto meno i tedeschi. E che hanno pesato molto fattori di politica interna, di tenuta sociale (il tema dell’equità), fattori in questa fase sempre più decisivi per la ripresa della fiducia nella ripresa economica. La tassa sulle transazioni finanziarie riflette la volontà di dare un segnale preciso al mondo della finanza dopo il grande ‘sfascio’ economico da essa provocato. E, intanto che ci siamo, aumentare le entrate.