LETTERA DA BRUXELLES L’aiuto alla Spagna è solo un altro tassello

Adesso che il quadro dell’intervento europeo a sostegno delle ricapitalizzazioni delle banche spagnole, con il via libera dell’Eurogruppo al prestito fino a 100 miliardi di cui 30  subito per l’emergenza, perché i mercati non si placano? E perché nei piani alti della Commissione europea e del Consiglio Ue, non solo a Francoforte nel palazzo Bce, la preoccupazione è al massimo e se non è allarme rosso poco ci manca? La cosa certa è che i meccanismi anti-crisi innestati non dispiegano i loro effetti che troppo lentamente rispetto alle mosse dei mercati. E la lentezza combinata alla capacità finanziaria effettiva di Efsf/Esm, giudicata universalmente scarsa per fronteggiare una crisi generalizzata di paesi come Spagna e Italia, può diventare un boomerang. In sostanza, le decisioni sulla Spagna sono solo un tassello di un ‘puzzle’ enorme e complicatissimo.



  Potrebbe essere diverso se nell’Eurozona esistesse un ‘prestatore di ultima istanza’ chiaramente indicato, ma questo non è il caso. Tutto sommato tale funzione è svolta parzialmente dai due Fondi anti-crisi, l’Efsf (temporaneo fino a metà 2013) e l’Esm, sui quali poggia l’impalcatura di ‘resistenza’ dell’unione monetaria alla crisi, ma nessuno lo dice perché se venisse detto si potrebbe ribattere facilmente, e giustamente, che un prestatore di ultima istanza non ha limiti finanziari per definizione e deve poggiare su una volontà davvero univoca di prestare in ultima istanza. Tali condizioni nel caso dell’Efsf/Esm non ci sono, ma deve far riflettere che i governi neppure abbiano provato a convincere che almeno a quella funzione in qualche modo si ispira.
  La conferma che entro fine mese Madrid avrà a disposizione 30 miliardi per interventi urgenti nelle banche più deboli e il segnale di flessibilità sulla gestione dei fondi (la quota non usata può essere destinata ad altri scopi tra cui l’acquisto di debito sovrano sui mercati primario e secondario a condizione di un accordo specifico con l’Eurogruppo) avrebbero dovuto in teoria convincere che, sia pure passo dopo passo, l’unione monetaria fa ciò promette. Invece resta la sensazione che si pesti l’acqua nel mortaio. Una fonte europea sotto stretto anonimato esemplifica così il quadro e la sorpresa è che si tratta più o meno dello stesso scenario evocato da molti analisti di società di investimento e banche che ‘fanno’ il mercato e formano le opinioni correnti. Sostanzialmente ci sono cinque elementi: il primo è la pressione sulla Spagna; seguono la pressione sulla Grecia (la Commissione ha ricominciato a tamponare voci di rinegoziazione dell’accordo sul secondo programma di prestiti appena negoziato); il prolungamento dei tempi di entrata in funzione dell’Esm (se tutto va bene a settembre in attesa della decisione della Corte costituzionale tedesca); il tipo di ‘unione bancaria’ verso cui procederà l’Eurozona; infine la separazione in due dell’Eurozona, da una parte i paesi che si finanziano a tassi minimi se non negativi, dall’altra parte quelli martellati dai mercati. Questi ultimi sono Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo, i ‘bisognosi’ di aiuto, poi Italia, e Slovenia. Gli investitori proteggono i loro capitali e fuggono verso Nord. Sottolinea la fonte europea: “Se in prospettiva questo non è svantaggio competitivo, che cos’è? La tendenza è verso una progressiva frammentazione dell’unione monetaria, con il rischio che sia una frammentazione di tipo strutturale”.
  Si aggiunga un contesto caratterizzato dal prolungamento della recessione-stagnazione (l’avvio della ripresa è stato spostato verso fine anno), dal crescendo della protesta sociale in paesi chiave (dopo la Grecia tocca alla Spagna), dalla confessata difficoltà politica di fare previsioni di attori primari del grande gioco europeo (la cancelliera tedesca Angela Merkel ha ammesso di non essere certa della riuscita del progetto europeo). Ciò riflette anche una profonda divisione su una questione centrale per l’unione monetaria: quanto i governi sono disposti a mettere in comune per salvarla, in termini di condivisione degli oneri per gestire questa fase, in una parola del debito almeno potenziale. Questa è diventato un tema di capitale importanza dato che non si può avere una supervisione bancaria accentrata nell’Eurozona (nelle mani della Bce) se non c’è un fondo comune per la risoluzione delle banche (per gestire in modo ordinato ristrutturazioni e fallimenti facendone pagare innanzitutto ai privati gli oneri) e, soprattutto, un fondo comune di garanzia dei depositi.
  Il tema della condivisione dei rischi di debito non è proiettato in un futuro lontano, non è la solita questione, peraltro anch’essa molto importante, Eurobond sì-Eurobond no, è già materia di negoziato. Un negoziato talmente difficile che nessuno ne parla. Gli stessi capi di stato e di governo dell’Eurozona non ne hanno fatto cenno quando, a fine giugno, hanno avviato la svolta fondativa di una unione monetaria più integrata e hanno accettato di difendere i paesi che rispettano gli impegni europei di bilancio ma continuano a essere penalizzati dai mercati, come l’Italia (l’ombrello anti-spread). Non è stato un caso.