LETTERA DA BRUXELLES Crisi: non può crescere la fiducia se non si spegne l’incendio

E’ tornato quasi di moda il pessimismo sull’economia americana. Nell’ultimo sondaggio New York Times/Cbs News sette intervistati su dieci ritengono che il loro paese si trova sul binario sbagliato. I media si interrogano sulle ragioni del rilancio delle teorie decliniste, l’ultimo numero dell’Economist titola “What’s wrong with America’s economy?” (Che cosa non funziona nell’economia americana?) ed elenca una serie di problemi reali: tra questi il rischio che gli Stati Uniti contraggano una malattia tipicamente europea, la disoccupazione strutturale. Da poco si è scoperto che quasi metà dei senza lavoro, circa 6 milioni di americani, è rimasta a casa per più di sei mesi. Una frustata nazionale. La sindrome del declino americano si era riacutizzata un paio di mesi fa per il lancio dell’operazione di fusione di Nyse Euronext con Deutsche Borse, sulla quale c’è la contro offerta ostile Nasdaq Omx-Ice: può Wall Street ‘parlare tedesco’? Poi le preoccupazioni per le condizioni delle finanze pubbliche, con gli Stati Uniti insieme al Giappone senza un piano per rimetterle sul giusto binario, l’allarme del Fondo monetario internazionale sulla pericolosa divisione ideologica tra democratici e repubblicani sul modo di affrontare il problema. A parte il fatto che le teorie decliniste sono da prendere con doppie molle perché periodicamente rilanciate si sono sempre rivelate nel caso americano semplicemente sbagliate (basta pensare alle vecchie paure del sorpasso giapponese), in altri tempi in Europa si sarebbe scatenata la riflessione opposta: se vanno male gli Stati Uniti che splendida occasione per valorizzare il vecchio e bistrattato continente. Invece no e il motivo è semplice: per quanto gli Stati Uniti siano di fronte a scelte difficili, in Europa e nell’Eurozona non c’è molto da stare allegri. Se raggiungessero livelli di crescita paragonabili a quelli americani ci sarebbe da saltare di gioia, ma la distanza tra le previsione resta enorme.

Il Fmi prevede quest’anno una crescita del pil Usa del 2,8% contro l’1,6% dell’Eurozona; l’anno prossimo saremo lì vicino, 2,9% contro 1,8%. Fra due settimane la Commissione europea renderà note le nuove stime di primavera che non saranno molto diverse, questione di pochi decimali.
  Niente di nuovo sotto il sole, naturalmente, ma oltre ai problemi di sempre (produttività, capacità di reggere il ritmo di innovazione, istruzione) ce n’è uno sostanziale: l’incendio europeo, con la crisi in successione di Grecia, Irlanda e Portogallo, non è stato spento e nulla assicura che lo sarà in breve tempo. Il braccio di ferro mercati-governi sulla ristrutturazione del debito greco è in corso, ad Atene si fanno seguire strette economiche a strette economiche, ma continua a restare senza risposta l’interrogativo di fondo: ce la farà il governo a gestire con mezzi ordinari un debito/pil che corre verso il 150%’ con piani di rigore che taglino la spesa pubblica fra il 7 e il 14% del prodotto annuo entro il 2015 a fronte di un andamento del pil stimato dal Fmi a quota -3% quest’anno e a +1,1% l’anno prossimo? Non c’è il rischio di una esplosione sociale?
  A due anni e mezzo dallo scoppio della crisi finanziaria, a oltre un anno dallo scoppio della crisi greca tuttora aperta nonostante gli aiuti per 110 miliardi di euro, l’Eurozona e la Ue possono essere soddisfatte di molte cose: è stata costruita una complessa ‘macchina’ europea di vigilanza finanziaria; sono state salvate le banche in molti paesi chiave per il sistema bancario (Regno Unito, Irlanda, Spagna, Germania, Belgio, Olanda), una parte delle quali è stata conseguentemente e pesantemente ristrutturata; il danno della crisi all’attività economica è stato limitato alle economie travolte dalla crisi del settore bancario e con problemi di sostenibilità delle finanze pubbliche e non si è diffusa al resto d’Europa; entro giugno sarà definitivamente eretta la muraglia anti-crisi per aiutare i paesi in difficoltà finanziaria con i prestiti. Il problema è che tutto questo non è risultato finora sufficiente né a raffreddare la crisi del debito sovrano né a far ripartire stabilmente la fiducia nell’economia di business e consumatori (gli ultimi sondaggi a livello europeo sono piuttosto sconfortanti). E alla crisi del debito sovrano si aggiungano le preoccupazioni per le perdite delle banche che di titoli pubblici e titoli privati sono piene. E’ una realtà che dovrebbe indurre a una profonda riflessione i ministri finanziari nella riunione di metà maggio e i capi di stato e di governo al vertice di fine giugno.