Regole per la finanza, salvataggio degli stati che tracollano sui mercati finanziari: i ‘policy maker’ europei devono sempre più spesso fare i conti con un nuovo attore, le opinioni pubbliche, cioè i cittadini in carne e ossa che tutelano i propri interessi in tribunale, da soli o in gruppo, scioperano per contenere la durezza dei programmi di austerità (Grecia, Spagna e Portogallo), votano (in Irlanda il 25 febbraio, qualche giorno dopo in Germania, toccherà a sette Laender). Non che le opinioni pubbliche siano mai state una variabile indipendente per i governi, come è ovvio. Negli ambienti comunitari è famosa la battuta del lussemburghese Jean Claude Juncker: “Sappiamo esattamente quali politiche definire per riequilibrare le nostre economie, ciò che non sappiamo è come essere eletti una volta che le abbiamo messe in pratica”. Per quanto questo paradigma abbastanza paralizzante sia stato recentemente smentito dalla Svezia, paese in cui il governo di centro-destra di Frederik Reinfeldt è stato appena riconfermato, il problema assilla mezza Europa. Un riflesso di questa incertezza diventa sempre più palpabile anche nelle istituzioni europee. Ecco che cosa ha risposto di fronte a un pubblico di banchieri il commissario al mercato interno Michel Barnier all’accusa di voler ingabbiare l’attività delle banche in nome delle regole prudenziali. “Se non agiamo subito per completare nel modo più rigoroso la riforma della finanze europea e globale rischiate che in futuro di trovarvi davanti una persona molto meno ragionevole di me” in un contesto politico nerale in cui si moltiplicano le spinte “populiste”. In sala non ci sono stati commenti, reazione quasi di gelo.
Barnier è francese e proprio in quella posizione l’ha voluto Nicolas Sarkozy. Il ‘mercato interno’ è la direzione generale dalla quale arrivano gli input per la regolazione finanziaria europea cui la Francia, quest’anno pure presidente del G20, tiene come non mai. E’ la direzione generale della Commissione dalla quale partono fondamentali innovazioni legislative, anche quelle che recepiscono quanto deciso a livello internazionale (G20-Comitato di Basilea). Prima di Barnier nella prima Commissione Barroso il mercato interno era retto da Charlie McCreevy, irlandese, ex ministro delle finanze, liberista a 360 gradi, fautore dell’autoregolazione della finanza ancora nei mesi in cui il suo paese era tracollato. Alla fine, la sua stessa presenza era ormai diventata politicamente imbarazzante.
La battuta del felpato commissario francese è il sintomo della preoccupazione che aleggia sempre più diffusamente: la nuova regolazione finanziaria non deve rispondere solo alle esigenze della stabilità sistemica ed evitare che i cittadini siano chiamati a pagare i costi di una crisi (e questo è ovvio), ma anche interpretare lo spirito del tempo del quale devono (dovrebbero) far parte la moderazione di cui parla Barnier, barriere efficaci ai conflitti di interesse, sistemi di retribuzione che non incentivano all’assunzione di rischi eccessivi, freni ai bonus nelle banche salvate con i soldi pubblici. In caso contrario aspettiamoci legittime reazioni da parte delle opinioni pubbliche. Ecco i passaggi ‘etici’ del suo sermone ai banchieri: “Le banche devono agire in modo responsabile: oggi chiediamo molti sforzi ai cittadini per cui le banche hanno un dovere di responsabilità, un dovere morale anche, la società è inquieta, soffre, per cui le banche farebbero meglio a non dimenticare che fanno parte dell’economia e, quindi, della società”.
Applicare i nuovi principi sulle remunerazioni è una strada in salita. La direttiva Ue approvata alcuni mesi fa prevede il versamento differito minimo di tre anni di almeno il 40% dei bonus e fino ad almeno il 60% per le remunerazioni più elevate. Metà della remunerazione variabile deve essere versata sottoforma di azioni. Ciò permette di introdurre oltre al bonus il malus: in caso di comportamenti fraudolenti si può essere costretti a restituire quanto già incamerato. Bruxelles promette che vigilerà in modo “estremamente rigoroso” sul rispetto di tali regole. Un segnale non lanciato a caso. Proprio in questi giorni il governo britannico ha raggiunto un accordo con i banchieri che sono riusciti a limitare i danni sui bonus in cambio di un aumento dei prestiti alle imprese dopo settimane di duri negoziati. Le banche maggiori si sono impegnate a prestare l’equivalente di 225 miliardi di euro quest’anno per sostenere la crescita, il 6% più dell’anno scorso (quasi un caso di dirigismo concordato). Inoltre, renderanno pubbliche le remunerazioni dei sette principali dirigenti promettendo che il totale dei loro bonus sarà inferiore a quello del 2010. Però Royal Bank of Scotland e Lloyds Banking Group, il cui salvataggio è costato parecchio ai contribuenti, non pagheranno alcun premio cash superiore a 2300 euro e i bonus saranno interamente corrisposti in azioni. Opposizione e sindacati sono sul piede di guerra, dicono che Downing Street ha ceduto alla finanza sconfessando le promesse elettorali.
La Francia va fiera perché i bonus versati nel 2010 sono stati ridotti di oltre il 20%, 3 miliardi di euro in tutto con un risparmio di 800 milioni rispetto al 2009. Ciò non basta al controllore delle remunerazioni degli operatori di mercato Michel Camdessus (ex governatore della Banca di Francia ed ex direttore generale Fmi), che ha messo le mani avanti: si rischia il rapido ritorno alle pratiche del passato perché il modo in cui vengono fissati i bonus porta a “livelli di remunerazione molto elevati”. Conviene stare attenti nel momento in cui si chiedono sacrifici ai cittadini.
Un altro caso che dimostra il peso delle opinioni pubbliche è quello irlandese: si vota per le legislative il 25 febbraio e i due partiti in testa nei sondaggi, Fine Gael e laburista hanno indicato che in caso di vittoria vogliono rinegoziare il prestito europeo-Fmi (22,5 mld fmi e 45 mld dei paesi europei) accettato dal Fianna Fail, partito attualmente al potere e destinato a sicura sconfitta. Iniquo, punitivo (a causa della penalità del 3% sul tasso complessivo di circa il 6% da pagare agli stati), irrealizzabile: sono questi i giudizi correnti espressi in campagna elettorale. Con un deficit pubblico al 32% quest’anno c’è poco da grattare nel barile, ma questo è ciò che si dice. Per quanto Ue, Fmi e Bce siano molto preoccupati, si sta schiudendo la porta a qualche alleggerimento: la Bce non vuole sentir parlare di rinegoziazione ma apre a un ‘adattamento’ del prestito; l’Eurogruppo sta discutendo della possibilità di riscadenzare i pagamenti dei paesi aiutati (Grecia e Irlanda), sul tavolo c’è anche l’eventualità di altri prestiti a breve. Qualcosa ai margini si smuoverà.