Era quasi un segreto di Pulcinella la candidatura di Ursula von der Leyen a ricoprire un secondo mandato alla guida della Commissione europea: dopo il lancio della Cdu, il partito perno del partito popolare europeo, ci sarà a marzo il congresso di quest’ultimo a dare il via libera formale. Per quanto il responso delle urne a inizio giugno possa riservare sorprese e la maggior parte dei sondaggi indichino che non ci saranno grandi rivolgimenti negli assetti politici dell’Eurocamera, sarebbe un azzardo dare tutto per scontato. Identità e democrazia potrebbe diventare il terzo gruppo politico dopo Ppe e S&D (socialisti) scavalcando i liberali di Renew Europe (che include i macroniani) e si profila un testa a testa con l’Ecr (Conservatori e riformisti). Dovrebbe verificarsi uno spostamento a destra, ma non così traumatico rispetto al quadro precedente. Von der Leyen ce l’aveva fatta cinque anni fa grazie al voto dei 5 Stelle, questa volta potrebbe porsi davvero il problema del consolidamento della sua maggioranza spostandosi più a destra. Prospettiva che agita però il Partito popolare europeo. L’attivismo di von der Leyen in questi ultimi mesi in mezza Europa per ergersi a interlocutrice privilegiata per i governi in carica anche per il futuro prossimo venturo trova la sua motivazione proprio nella costruzione di un consenso che duri attorno alla sua persona. E fa parte di questa strategia anche la serie di concessioni e aperture alle posizioni del Ppe, di Id ed Ecr al Parlamento europeo e alle richieste di diversi stati membri (dalla Francia all’Italia) in materia di regolamentazioni del Green Deal.
La base elettorale della presidente della Commissione è doppia: il Consiglio europeo (cioè i capi di stato e di governo) propongono al Parlamento la candidatura che, dovendo tenere conto dei risultati delle elezioni europee, proviene dal gruppo politico maggioritario del Parlamento. Quest’ultimo approva a maggioranza assoluta (la metà più uno di tutti i deputati)dopodiché spetta al Consiglio europeo la nomina ufficiale. I capi di stato normalmente decidono per consenso generale, tuttavia non sempre: nel 2014 si espressero contro la candidatura del lussemburghese Jean Claude Juncker il britannico Cameron e l’ungherese Orban. I leader Ppe sono in maggioranza, seguono liberali e socialisti, l’Ecr.
Non sarà facile trovare un’intesa perché la presidenza della Commissione fa parte di una rosa con diversi petali: va trovato l’accordo su chi guiderà la sezione “’esteri” della Ue a cavallo tra Consiglio e Commissione (l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza è attualmente il socialista Josep Borrell), sul nuovo presidente del Consiglio Europeo (attualmente è il liberale Charles Michel), la presidenza dell’Europarlamento (attualmente retta dalla popolare Roberta Metsola nella seconda parte del mandato dopo David Sassoli che era del gruppo socialista). Per quanto la presidenza dell’Europarlamento sia considerata generalmente parte di questa rosa, il suo peso – almeno finora – non eguaglia il peso delle altre cariche istituzionali e certamente di Commissione e Consiglio.
Si comprende così l’intrecciarsi di interessi diversi da cui originano i compromessi sulle cariche Ue, interessi che sono di stato, di partito (famiglie politiche europee), di dimensione dei paesi in gioco, di schieramento geo-politico (est-ovest, sud-nord). In tale contesto per quanto riguarda l’Italia guidata dal governo di destra-centro potrebbe darsi il caso di un sì in sede di Consiglio alla candidatura von der Leyen e di una spaccatura dei tre partiti di governo all’Europarlamento: Forza Italia sosterrebbe ovviamente la presidente della Commissione, non la sosterrebbe la Lega, presumibilmente al contrario di Fratelli d’Italia. Almeno questo è uno scenario possibile. Salvo che dalle urne escano davvero sorprese di cui ora non si vedono i segni.
Per quanto riguarda le candidature agli altri posti qualsiasi indicazione è prematura. Periodicamente negli ultimi tempi emerge il nome di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio Europeo cui – si è detto e scritto – penserebbe Macron. La sua personalità politica non ha eguali dato il “background” di massima responsabilità tecnica come banchiere centrale e premier in Italia, che nessuno in realtà possiede nell’Unione europea. Se si adotta un punto di vista interno alla Ue, una candidatura Draghi dovrebbe essere il risultato di una scelta di maggiore condivisione di poteri a livelli europeo dato che sarebbe abbastanza assurdo ritenere possa limitarsi a una funzione di semplice facilitazione del negoziato permanente tra i 27. Di una tale impostazione non vi sono molto tracce. Se si adotta un punto di vista più generale, cioè quello della funzione dell’Unione Europa su scala globale, una personalità di quel genere farebbe proprio al caso della Ue soprattutto data l’incertezza su quanto potrebbe emergere dal voto americano a fine anno (il rischio ritorno di Trump). E tenendo conto delle emergenze politiche ed economiche che la Ue deve fronteggiare (ruolo globale, relazioni con Usa e Cina, guerre in corso, sicurezza economica e strategica continentale) e che richiederebbero tutte soluzioni più comunitarie (o federali “tout court”) e non nazionali, una soluzione Draghi potrebbe anche avere effetti positivi sulla stessa politica “interna” dell’Unione. Però Draghi non è riconducibile ad alcun partito e anche questo, con ogni probabilità, rende l’ipotesi ancora più difficile da realizzarsi.
Quanto agli altri “spitzenkandidaten”, il Pse punta all’attuale commissario agli affari sociali Nicolas Schmit (lussemburghese) mentre i Verdi hanno indicato il tedesco Terry Reintke e l’olandese Bas Eickhout i loro rappresentanti di punta nella campagna elettorale.