“Ci sono molte comprensibili ragioni politiche per rinviare le riforme strutturali, ma ce ne sono pochissime economiche”. La battuta del presidente della Bce Mario Draghi condensa il messaggio lanciato dal Business Economic Forum nella capitale belga. Non si è trattato della solita rampogna contro i governi della zona euro. Piuttosto si è trattato di un doppio segnale che va al cuore delle polemiche cui la politica monetaria della Bce è sottoposta sia fuori e dentro i propri ‘confini’. Il primo segnale riguarda l’inflazione: se resta inchiodata più o meno sopra e sotto quota zero non è perché il ‘quantitative easing’ è una politica sbagliata, ma perché il contesto delle politiche economiche pubbliche non permette di accelerare il ritorno alla ‘normalità’. Il secondo segnale riguarda le scelte politiche sul futuro della zona euro: il traccheggiamento scelto dai governi rema contro la necessità di rafforzare la fiducia. Tanto più con il rischio Brexit.
I due messaggi sono incrociati: la capacità dei governi dell’unione monetaria di creare le condizioni economiche per una ripresa più forte, con politiche di bilancio che favoriscano la crescita, interventi strutturali che migliorino la produttività, riforme che “riducano il ritardo della trasmissione all’economia delle nostre misure di politica monetaria”, sarebbe più intensa se il contesto politico-istituzionale dell’unione monetaria fosse più ‘approfondito’, precisato, completo.
Mario Draghi è uno dei presidenti delle istituzioni europee che hanno prodotto giusto quattro anni fa un famoso ‘rapporto’ che definiva un percorso possibile ‘verso una genuina unione economica e monetaria’. In quel rapporto si parlava di maggiore condivisione della sovranità nelle politiche di bilancio ed economiche, si parlava di ‘capacità di bilancio’ dell’unione monetaria (un modo ‘soft’ per parlare di bilancio, di messa in comune di risorse), si parlava di un ‘Tesoro’ comune. Temi, prospettive spesso rimaneggiate, rielaborate, spinte ora da questo o da quel ministro dell’economia, in solitudine o con altri ministri, mai però poste sul serio all’ordine del giorno di una decisione da parte dei massimi responsabili europei, i capi di Stato e di Governo.
In questi giorni ci si interroga su che cosa accadrà se il 23 giugno vincesse Brexit: il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan caldeggia l’ipotesi di un inevitabile atto di coraggio dei governi, che dovrebbero dare un segnale di unione ancora più forte della – e nella – zona euro. Necessario almeno per allineare l’azione politica a quanto le banche centrali di mezzo mondo faranno per arginare uno sconquasso dei mercati finanziari e dei cambi. Pochi altri ministri dell’Eurogruppo si sono pronunciati nello stesso senso, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, il francese Michel Sapin. Nessuno ha indicato qualcosa di preciso.
Se sarà Brexit qualcosa i governi della zona euro dovranno pur dire: che possano prendere impegni effettivi a stretto giro di posta appare tuttora improbabile. Al Brussels Economic Forum si è parlato tanto di ‘roadmap’, ma la sola cosa certa è che per decidere qualcosa si deve aspettare il risultato delle presidenziali francesi e delle elezioni politiche tedesche l’anno prossimo.
E’ questo stancante traccheggiamento che preoccupa Draghi: sarà comprensibile (come il ritardo delle riforme), ma è diventato molto rischio. Forse troppo. Se al lentissimo ritorno dell’inflazione a livelli considerati normali, al ritorno dell’economia a una vitalità relativamente normale, si accompagnasse lo sfarinamento dell’Unione europea dovuto a Brexit, la Bce si troverebbe più che sola. Si troverebbe con le armi spuntate (più spuntate di quello che già in parte sono). Perché, ha ricordato oggi Draghi, la politica monetaria “non esiste nel vuoto”. La situazione delle banche centrali va descritta “come indipendenza nell’interdipendenza”, ma se i governi non agiscono quell’interdipendenza è solo negativa.
I vertici Bce avvertono che i margini per temporeggiare sul futuro della zona euro si sono ristretti. Forse non ce ne sono già più. L’incertezza sull’assetto politico-istituzionale dell’unione monetaria è diventato un fattore di freno all’economia, incide negativamente sulla fiducia. Brexit sarebbe un acceleratore, ma non è detto che in varie parti della zona euro l’acceleratore sarà premuto in direzione di una maggiore integrazione. La prova di leadership è collettiva, ma riguarda alcuni paesi chiave in particolare: Germania e Francia, innanzitutto. L’Italia, dal canto suo, appare schierata decisamente a favore di una maggiore integrazione della zona euro.