Per nessuna delle tre crisi drammatiche che sta vivendo l’Unione europea si intravvedono i segnali che i governi intendono compiere dei passi coraggiosi per far compiere alla politica europea e al sistema di governance un salto di qualità. Il meccanismo che ha funzionato in passato tante volte in passato, per cui le crisi sono sempre state un’occasione da sfruttare al meglio, il trampolino per un salto avanti dell’integrazione che vuol dire maggiore condivisione di responsabilità, di obiettivi e quindi di destino, è inceppato. E, inevitabilmente la risposta politica risulta incerta, contraddittoria, insufficiente. Le tre crisi in corso sono quella greca (che chiama in causa le prospettive della stabilità economica e politica dell’Eurozona), quella dell’immigrazione e quella dei rapporti con la Russia. A queste tre se ne potrebbe aggiungere un’altra che riguarda il Regno Unito, ma per il momento Brexit è una bomba a tempo ritardato (il tic tac si farà sentire fra un anno).
Sulla Grecia la partita è ancora aperta e con ogni probabilità sarà chiusa entro domenica: l’ordine di scuderia dei creditori è che lunedì mattina va assolutamente evitato un disastro sui mercati.
Sull’immigrazione le cose sono chiare: non passa il principio delle quote di ripartizione degli asilanti tra i vari Stati membri. Alla fine magari saranno pure quarantamila, ma non ci sarà nessun programma esplicitamente concordato tra i governi. Scolpito nel marmo. Una sconfitta per la Commissione europea e tante difficoltà in più per Italia, Grecia e anche Ungheria, che teme il riorientamento dei flussi migratori dal Mediterraneo verso il fronte sud-orientale.
È stato un colpo ascoltare l’altro giorno un alto funzionario dell’Unione europea dell’entourage del presidente Ue Donald Tusk (ex premier polacco) mentre diceva: “L’idea che le quote saranno imposte da Bruxelles non decollerà mai”. Se alti funzionari europei usano espressioni come questa, ‘quote imposte da Bruxelles’, significa che siamo e resteremo a lungo in un periodo nel quale la condivisione della responsabilità non è più un obiettivo comune dichiarato e dichiarabile. Un’altra battuta che circola ultimamente è questa: gli Stati membri della Ue sono 29 perché ai 28 va aggiunta la presidenza Ue, retta dal polacco Tusk.
A Bruxelles cercano di cavarsela a buon mercato. Ora si parla di “volontarietà vincolante” al posto delle quote di immigrati con diritto di asilo: è una di quelle trovate con le quali si cerca pragmaticamente di aggirare l’ostacolo ed è invece destinata ad alimentare nuovi contrasti, nuovi equivoci. È uno dei tanti ossimori con i quali si diceva di voler realizzare qualcosa di buono, riuscendoci raramente.
Una ricetta/ossimoro che ha fatto parecchio male negli ultimi anni è la locuzione/mito ”austerità espansiva”, in base alla quale ampi tagli alla spesa pubblica sono considerati un fattore fondamentale per far aumentare il prodotto nazionale anche in una fase di crescita dell’economia debole o sull’orlo della deflazione. Teorizzata e praticata ampiamente in Europa (e, dramma nel dramma, contemporaneamente da tutti i paesi) si è rivelata un mezzo disastro. Tanto è vero che è una strategia abiurata dallo stesso Fondo monetario internazionale. L’Europa ha appena cominciato a non praticarla, ma chi la difendeva a spada tratta (uno fra tutti l’ex commissario europeo Olli Rehn) non ha mai fatto autocritica.
Quanto alla Russia la questione è davvero seria: i governi dell’Unione europea sono profondamente divisi nonostante abbiano prorogato all’unanimità le sanzioni contro Mosca. I nuovi piani militari americani per ‘contenere’ la Russia (250 carri armati e armi pesanti nei nuovi paesi Nato a Est, con il loro pieno consenso) non sono una bazzecola. Nelle prime note di riflessione sul nuovo concetto di sicurezza che la ‘ministra’ degli esteri Ue Federica Mogherini si parla di ‘partnerariato strategico’ solo per i paesi dell’Est (extra Unione europea) non più in relazione alla Russia. Non è una novità assoluta dopo la ‘caduta’ della Crimea, ma ora se ne vogliono trarre le conseguenze, appunto, strategiche. Solo che il consenso sulla strada da seguire è lontano dall’essere trovato.
Sia la crisi greca che la gestione dell’immigrazione e le relazioni con la Russia, un vicino troppo ingombrante e dal quale l’Unione europea è troppo dipendente per le forniture energetiche, richiederebbero un salto triplo nell’ambizione politica da parte dell’Unione. Invece sul tavolo c’è poco.
Per la governance economica non accadrà quasi nulla nei prossimi due anni, l’obiettivo del rafforzamento politico dell’Eurogruppo resta vago; nella primavera 2017 la Commissione preparerà un Libro Bianco per valutare se sono possibili nuovi sviluppi dell’integrazione i tempi e se potrà esserci uno strumento comune per la stabilizzazione macroeconomica (per aiutare con risorse comuni i paesi a fronteggiare grandi choc economici). Quando a Bruxelles preparano un Libro Bianco il clima non è proprio da ‘allacciatevi le cinture che sta per succedere qualcosa’.
Per l’immigrazione si sa ciò che si dovrebbe fare in teoria (nella migliore delle ipotesi), in pratica nessun governo in carica è disposto a rischiare il consenso interno in nome della ripartizione equa dell’onere dell’accoglienza. La ripartizione dei quarantamila immigrati non deve avvenire con un ordine da Bruxelles, anche se a Bruxelles a decidere gli ordini sono poi gli stessi che non li vogliono applicare, cioè i governi. Quanto alla Russia, il gioco chiama in causa interessi geopolitici di prima grandezza, in cui si intrecciano necessità energetiche e sicurezza nazionale sulle quali la sovranità degli Stati è assoluta. Sono in molti a pensare che senza la spinta americana, il fronte europeo pro-sanzioni sarebbe stato quantomeno frastagliato.