Negli ultimi mesi i rischi per la crescita sono diminuiti, ma il quadro macro-economico resta debole e sottende diverse incertezze sulla stabilità finanziaria, prime fra tutti quelle dovute all’eccesso di debito pubblico e privato e al volume dei crediti bancari deteriorati. Non solo gli investimenti riprenderanno lentamente, ma il basso tasso di crescita previsto per i prossimi anni può mettere in discussione, più di quanto sia già messo in discussione oggi, gli standard di vita e la sostenibilità delle finanze pubbliche. E’ questa l’analisi di cui si nutrirà la discussione dei ministri finanziari nelle riunioni di domani e sabato riuniti nel formato Eurogruppo (domattina) ed Ecofin informale. Dai documenti preparati dagli ‘sherpa’, dalla Commissione e dalla presidenza lettone, di cui Il Sole 24 Ore Radiocor ha potuto prendere visione, emerge una valutazione sugli sviluppi economici di medio periodo con molte ombre. E anche un allarme sul ribasso della crescita potenziale, che in Europa è cominciato ben prima del 2008 e che la crisi finanziaria e poi la recessione hanno aggravato. L’occupazione potenziale, l’accumulazione di capitale e la crescita della produttività totale dei fattori (che misura la crescita del valore aggiunto attribuibile al progresso tecnico, ai miglioramenti della conoscenza e nell’efficienza dei processi produttivi) resteranno sotto i livelli pre-crisi fino al 2020.
L’analisi preparata dagli staff ministeriali e comunitari non propone stime aggiornate: per queste occorre aspettare il 5 maggio, quando la Commissione presenterà la nuova elaborazione di primavera sulla base della quale valuterà le strategie di bilancio dei vari paesi membri. Le ultime stime aggiornate sono quelle del Fondo monetario, che danno per la zona euro una crescita del pil quest’anno all’1,5% dopo 0,9% nel 2014 e dell’1,6% nel 2016. Ci si aspetta che quelle europee non se ne discosteranno sostanzialmente.
L’interesse delle valutazioni contenute nei documenti preparatori delle riunioni di Riga, che riflettono le discussioni svoltesi a livello tecnico nei vari gruppi e sottogruppi di lavoro ai quali partecipano i rappresentanti dei ministeri delle finanze, banche centrali e Commissioni, non sta nelle cifre quanto nell’illustrazione delle dinamiche economiche che comportano rischi per l’economia e per le strategie condotte dai governi per fronteggiare la deflazione. Non contengono notizie nello stretto senso del termine, forniscono però indicazioni utili per capire la direzione nella quale si sta andando. In particolare, vengono sottolineati quattro rischi relativi alla stabilità finanziaria che le migliori condizioni dell’economia grazie alla politica monetaria della Bce non devono far dimenticare o giudicare irrealistici.
Il primo rischio è la conseguenza della tendenza degli investitori a sottostimare l’eventualità di un risultato negativo di investimenti in un contesto di bassi tassi di interessi: la possibilità di una sopravvalutazione degli asset finanziari “resta una minaccia chiave” amplificata dalla scarsa liquidità del mercato e segnalata da recenti aumenti della volatilità in certi segmenti del mercato. Tale vulnerabilità può avere degli effetti negativi sui bilanci delle banche, degli assicuratori e dei fondi pensione (secondo rischio). A controbilanciare questo rischio può potrebbe contribuire la nuova probabile fase di fusioni e acquisizioni che migliorerebbe l’efficienza e la profittabilità degli istituti di credito di cui a termine beneficerebbero i prestiti all’economia reale. Il terzo rischio riguarda il sistema bancario ombra (‘shadow banking’) che richiede “attenzione speciale” e rende necessario mettere sotto stretto monitoraggio l’aumento dell’attività nei fondi non monetari e i legami con i gruppi bancari tradizionali.
Infine il quarto rischio, l’eccesso di debito che “continua a essere un freno alla ripresa”. Non si tratta solo del debito pubblico, che non potrà essere ridotto senza un rapido aumento della crescita potenziale, ma anche del debito privato che in alcuni paesi supera il 200% del pil. Secondo i dati pubblicati dalla Commissione, dal 2008 solo in una dozzina di paesi è stato ridotto il debito privato e nella maggioranza dei casi si è trattato di un aggiustamento che ha riguardato solo una frazione dell’aumento occorso prima della crisi (solo la Germania lo ha ridotto in misura significativa portandolo a una quota di poco superiore al 100% del pil). Il debito privato italiano nel 2013 era allo stesso livello del debito/pil, circa 130%.
Da tempo i ministri finanziari hanno focalizzato l’attenzione sulla necessità di aumentare la crescita potenziale attraverso le fatidiche riforme strutturali, il sostegno agli investimenti e politiche di bilancio al tempo stesso fiscalmente responsabili e benigne per la crescita economica. Una discussione approfondita sull’argomento, però, non è stata ancora fatta. In una delle note su ‘riforme strutturali ed economia’, gli ‘sherpa’ Ecofin indicano che “le prospettive di crescita nella Ue nei prossimi 5-10 anni sono inferiori a 1,5% l’anno data la lenta ripresa dalla crisi” per cui “il rischio di una bassa crescita persistente e della conseguente pressione sugli standard di vita e sulla sostenibilità delle finanze pubbliche rende necessario un approccio politico integrato”. E’ la strategia dei tre pilastri che si fonda sul tentativo di favorire ”simultaneamente” responsabilità di bilancio, nuovi investimenti e riforme strutturali. Finora l’unica azione simultanea è stata la stretta di bilancio nella maggior parte degli Stati. Ora c’è il tentativo di riequilibrio con il nuovo Fondo per gli investimenti strategici (Piano Juncker): 21 miliardi ‘pubblici’ di cui solo 5 miliardi ‘cash’ per attrarre capitali privati fino a 315 miliardi.
L’analisi europea è del tutto coerente con quella recentissima del Fondo monetario internazionale, secondo cui il basso potenziale di crescita della zona euro renderà “più difficile ridurre l’attuale elevato debito pubblico e privato”. Nella Ue la crescita potenziale, che misura il contributo alla crescita dei fattori di offerta quali capitale, lavoro e progresso tecnico, è rallentato da circa il 2,5% alla fine degli anni 90 al 2% nel periodo pre-crisi 2005-2007”. La crisi finanziaria e poi la recessione hanno aggiunto un impatto negativo ancora più forte con effetti “più strutturali che ciclici” portando la crescita potenziale a una media di 0,7% fra il 2009 e il 2014. Ciò significa una cosa precisa: i paesi europei potranno fondare la loro crescita meno sui fattori di accumulazione rispetto agli scorsi decenni quando la spinta demografica, lo sviluppo tecnico e l’aumento del reddito giocarono un ruolo più grande. Inoltre l’impatto sulla produttività del sistema economico dei recenti cicli di innovazione tecnica dovuti alla diffusione delle tecnologie informatiche è risultato più debole di quanto previsto.
L’analisi si inserisce nella discussione in corso da tempo tra gli economisti – europei e non – sul colpo di freno generalizzato del progresso tecnico e della produttività globale, principali carburanti della crescita potenziale, e sul rischio (o meno) di una “stagnazione secolare”. I tecnici dell’Ecofin, che non fanno proprio quest’ultimo termine, ripongono la strategia delle riforme strutturali senza aggiungere novità rispetto alle indicazioni note, tuttavia insistono su un punto: i benefici pieni di tali misure “possono impiegare tempo a materializzarsi e ciò spesso è una fonte di resistenza alle riforme di settori protetti in cui interessi acquisiti resistono al cambiamento”. Perciò occorre preparare dei “pacchetti” di riforma generalizzata per combinare il vantaggio della massa critica (impatto forte sulla crescita) per creare migliori condizioni di attività e “diluire la percezione di azioni non eque cercando attivamente il sostegno delle parti interessate (stakeholder) che possono beneficiarne e spesso sono meno organizzate, come consumatori e microimprese”.