Mancano due mesi e mezzo all’appuntamento: entro fine giugno regole e sostegno finanziario del nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (il cosiddetto ‘piano Juncker’) dovranno essere adottate per permetterne l’immediata operatività. Si tratta di poche settimane, ma nei prossimi giorni i legislatori europei entrano nella fase decisiva del negoziato. Parlamento e governi sono in rotta di collisione su una questione delicatissima sulla quale si regge l’intera operazione investimenti: la copertura delle garanzie europee attraverso il bilancio. Si tratta di 16 miliardi, che secondo Commissione e governi devono essere reperiti parzialmente riducendo la dotazione prevista per il programma quadro di ricerca e innovazione 2014-2020 (Orizzonte 2020) e per il ‘Meccanismo per collegare l’Europa’ che ha l’obiettivo di accelerare gli investimenti nelle reti transeuropee. La linea prevalente al Parlamento è che le due poste di bilancio non vanno toccate e che il contributo a carico del bilancio dell’Unione può autorizzato annualmente dal Parlamento europeo e dal Consiglio esplorando nuove vie di finanziamento. Per Consiglio e Commissione ciò creerebbe una incertezza sulle stesse garanzie che costituiscono la leva per attrarre capitali privati, un boomerang nel momento in cui si cerca di sedurre grandi e medi investitori privati.
L’opinione generale nei ‘palazzi’ europei è che alla fine un accordo si troverà: né la Commissione europea né i governi né i parlamentari, infatti, vogliono o hanno l’interesse a far naufragare il ‘piano Juncker’ che costituisce l’unica nuova iniziativa a livello europeo per uscire dal rischio di una stagnazione di lungo periodo e di declino progressivo della produttività oggi alimentato anche dalla carenza di investimenti. In ogni caso, nelle prossime settimane la battaglia parlamentare farà sicuramente rumore. Nel Parlamento la difesa delle poste di bilancio per ricerca e grandi reti di connessione è generalizzata e trasversale nella maggior parte dei gruppi politici e delle commissioni interessate. Inoltre c’è la difesa di un potere specifico del Parlamento in quanto co-legislatore e primo attore sulla gestione del bilancio nelle procedure di nomina dei vertici del Fondo. Secondo un funzionario comunitario che si occupa del dossier “è probabile che il punto di caduta del negoziato si fonderà su un compromesso che vedrà i governi cedere qualcosa sulle procedure per ottenere il consenso del Parlamento sulle modalità di finanziamento delle garanzie: è comunque troppo presto fornire anticipazioni”.
Recentemente la commissione industria, ricerca ed energia si è schierata decisamente contro un taglio ai programmi per la ricerca di 2,7 miliardi nel 2015-2020. Lo stesso discorso vale per i finanziamenti per le interconnessioni di trasporto, energia e digitale. Inoltre, la commissione ha definito una quota minima di progetti per l’efficienza energetica, 5 miliardi, che dovrebbe essere rispettata dal Fondo europeo per gli investimenti. Naturalmente si tratta di vedere se tali posizioni saranno fatte proprie anche dalle altre commissioni coinvolte. In particolare la questione del ‘tetto’ minimo vede i maggiori gruppi divisi. Sta di fatto che per la Commissione è stato uno schiaffo, dopo che per giorni e giorni il vicepresidente Jyrki Katainen, reagendo a una impostazione giudicata ‘dirigistica’, aveva indicato che “è il settore privato a determinare quali progetti saranno sostenuti e quali no”.
Le commissioni economica e bilancio riunite si apprestano a votare una serie di emendamenti (lunedì 20) in cui si schierano contro il taglio preliminare dei programmi ricerca e reti di connessione e a favore di “autorizzazioni graduali autorizzate da Parlamento e Consiglio nel quadro delle procedure annuali di bilancio. C’è l’impegno, beninteso, a dare in modo “irrevocabile” tali garanzie. L’idea è sfruttare tutti i margini di flessibilità esistenti nel bilancio Ue, esplorando nuove fonti di finanziamento, dagli incassi da multe europee all’uso del surplus annuale.
Secondo Commissione e Consiglio lasciare indefinita la modalità di copertura delle garanzie è un errore “strategico”, un segnale di incertezza rischioso nel momento in cui l’intera operazione è volta ad attrarre capitali privati. Già il marchingegno finanziario comporta delle incertezze: i 16 miliardi di garanzie Ue combinati a 5 miliardi ‘cash’ della Bei alimenterebbero un moltiplicatore tale da arrivare in tre anni a investimenti per almeno 315 miliardi (1 a 15 il rapporto capitale pubblico/capitale privato). La Commissione, sulla base dell’esperienza maturata in questo campo, ritiene sarà sufficiente garantire la metà tra pagamenti attinti al bilancio dell’Unione e obblighi totali di garanzia Ue.
Il ragionamento dell’esecutivo Juncker, sostenuto anche dai governi, è che la riduzione delle poste di bilancio per finanziare il Fondo di garanzia assicurerà “un volume di investimenti maggiore di quello reso possibile dai programmi attuali”. Il Fondo europeo per gli investimenti strategici, infatti, “dovrebbe riuscire a esercitare un effetto leva grazie alla garanzia Ue moltiplicando le ricadute finanziarie nei settori della ricerca, sviluppo e innovazione e delle infrastrutture di trasporto, telecomunicazione ed energia con incidenza maggiore rispetto a quanto si verificherebbe se le risorse fossero devolute a sovvenzioni nel quadro dei previsti programmi Orizzonte 2020 e Meccanismo per collegare l’Europa”. Il taglio sarebbe dunque una “opportunità”.
La diversa visione del Parlamento sulle modalità di finanziamento riflette fondamentalmente due fattori. Da un lato c’è scetticismo sul funzionamento del ‘moltiplicatore’: se è vero che l’esperienza di interventi e garanzie europee a progetti di investimento indica risultati anche superiori a 15 (fino a 1 a 20 nel caso di interventi per le piccole e medie imprese), non si sa quale sarà la rispondenza del settore privato in un contesto economico caratterizzata da stagnazione, bassa crescita, con prevalenza di comportamenti deflazionistici. Dall’altro lato, non si vuole far passare il principio che il ‘piano Juncker’ si fonda in parte sullo schema finanziario esistente e non su risorse aggiuntive (che i governi non vogliono fornire). Inoltre il Parlamento ha espliciti poteri sulle modifiche al bilancio e intende difendere le proprie prerogative fino in fondo. Tanto più in un momento in cui ha anche poco da fare, visto che la produzione legislativa europea ha subito in questa fase un calo drastico.