Visto dall’Europarlamento, dove in questi giorni sono in pieno corso le audizioni dei nuovi commissari per la fiducia che i deputati dovranno dare all’intero esecutivo Barroso 2, la discussione politica europea è piuttosto felpata, sminuzzata nei mille aspetti degli affari comunitari, tutti importantissimi naturalmente perché coinvolgono presto o tardi la vita di tutti noi, è ciò rende difficile individuare, almeno adesso, una linea precisa. Manca la ‘testa’, nel senso che le vere carte politiche le tiene in mano il presidente. Barroso ha solo promesso grandi idee sulle ricette per migliorare la crescita economica e fare ciò che l’Europa non è stata capace di fare entro il 2010 e cioè avere più occupati, essere più competitiva, esercitare effettivamente un ruolo di leadership nel mondo su temi fondamentali come il negoziato commerciale globale tuttora impantanato, l’azione sul clima (la Ue non è riuscita a fare da polo di attrazione al vertice di Copenhagen), la riforma dei mercati finanziari sulla quale – va detto – l’Unione ha comunque fatto dei passi da gigante. Se tali idee saranno davvero grandi lo si vedrà nel giro di una ventina di giorni al vertice Ue dell’11 febbraio. Per ora c’è solo una leggera rinfrescata a indicazioni lette e rilette da anni. Visto dalle capitali, invece, il dossier Europa acquista tinte più forti, toni più aspri. L’argomento della settimana riguarda la Francia. Con il caso Renault, l’intenzione di produrre la Clio 4 in Turchia (che peraltro non fa parte della Ue e neppure dello spazio economico europeo), il governo di Parigi ha riaperto le ostilità contro le regole del mercato unico.
La linea l’ha espressa il ministro dell’industria Christian Estrosi: se un’auto è destinata a essere venduta in Francia deve essere prodotta in Francia. Se questo è il principio possiamo chiudere Bruxelles. Di qui l’allarme della Commissione che, piaccia o no a Sarkozy, deve far rispettare a tutti gli stati membri le basilari regole della libertà di movimento delle merci, della non discriminazione commerciale, degli aiuti di stato forniti senza vincoli protezionistici nazionali.
Tutto il ‘fair play’ di Michel Barnier, il nuovo commissario al mercato interno imposto da Sarkozy a Barroso e inviso a Brown, quel Barnier che ha dichiarato agli europarlamentari che non prenderà ordini né da Parigi né Londra, spazzato via in pochi minuti. Nella fase di passaggio dalla vecchia alla nuova Commissione, Bruxelles non può permettersi nulla più che chiedere informazioni e dirsi “preoccupata” per la contraddizione evidente con gli impegni assunti in febbraio. Allora Renault ottenne insieme con Psa Peugeot Citroen 6 miliardi di prestiti pubblici a tassi privilegiati, aiuto non condizionato alla localizzazione di attività o all’approvvigionamento in Francia.
Un anno fa era la Repubblica Ceca il bersaglio francese, ora è la Turchia, domani chissà. Non che nei mesi duri della crisi Parigi fosse sola nella resistenza industriale di casa propria. Berlino ha cercato non meno grossolanamente di sfuggire alle regole del mercato unico per difendere Opel a spese dei lavoratori belgi, spagnoli e britannici. Ma un colpo così alla credibilità della politica europea quando l’uscita completa dalla crisi è ancora lontana, occorre che i governi concordino passo dopo passo il ritiro degli aiuti di stato alle banche (appuntamento a fine anno indica la Commissione), la riduzione dei deficit pubblici, siano pronti a concordare un calendario di emissioni di titoli di stato in caso di necessità per evitare che qualche paese a rischio credibilità rimetta le penne sul mercato, era proprio quello di cui non si sentiva il bisogno. La cancelliera tedesca Angela Merkel si accorge che non c’è nessuno in Europa che possa dire (cioè obbligare) al parlamento greco di riformare le pensioni e sostiene pure che è giusto così dato i parlamentari tedeschi non prenderebbero ordini dai greci. Il risultato le è chiarissimo: “Nei prossimi anni attraverserà una fase molto difficile”. Peccato che non abbia detto che cosa si può fare per evitarlo.