Dando per scontato che l'accordo sui prestiti tra governi, Commissione, Bce, Fmi e Atene ci sarà, che anche la Germania dopo tanto osteggiare e recriminare ci starà e che i mercati continueranno a scommettere sulla felice conclusione della crisi greca (o, almeno, della prima parte della crisi greca), conviene fin d'ora guardare a ciò che potrebbe accadere nella fase successiva, quella in cui non solo la Grecia ma anche altri paesi come Spagna e Portogallo dovranno accelerare l'attuazione di durissime cure anti-deficit. Mercoledì prossimo (5 maggio) la Commissione europea pubblicherà le nuove previsioni economiche con il solito corredo di valutazioni e tabelle sui vari paesi. Il quadro che ne uscirà dovrà essere attentamente studiato perché a quel punto emergerà chiaramente quanto spazio avranno a disposizione i governi per garantire l'uscita dalla crisi, oggi resa particolarmente ardua dagli effetti dell'esplosione economica e finanziaria greca. E' un aspetto di cui si parla poco in questi giorni travolti come siamo stati dall'emergenza sfiducia, alle prese con le resistenze tedesche a prendere coraggiosamente in mano la barra del timone, con l'accavallarsi di rinvii, incertezze e sfiducia (tutto questo non ha avuto solo un costo politico ed di immagine per l'Eurozona in quanto area monetaria integrata e un costo economico enorme che ancora nessuno ha calcolato). Certamente è l'aspetto sul quale si concentrerà l'attenzione di tutti (dei mercati in primo luogo) un minuto dopo che i prestiti Eurozona e del Fondo monetario internazionale saranno erogati alla Grecia.
Che non ci sia alternativa è un fatto: la stabilità dell'Eurozona passa per 'exit strategy' (la fase 2 dopo la gestione immediata della crisi) molto più dure di quelle che si prevedevano qualche mese fa in particolare in tre paesi, Grecia, Spagna e Portogallo. Non è un dramma se si misura la quota che rappresenta questo terzetto nell'Eurozona (meno di un terzo del pil complessivo) anche in riferimento alla loro capacità di assorbimento delle 'esportazioni' degli altri paesi dell'unione monetaria e segnatamente della Germania, può essere un problema se le terapie anti-deficit si inceppano perché si possono facilmente aprire nuove falle di fiducia in uno scenario economico di ripresa economica modestissima. Le ultime stime per la Grecia indicano per quest'anno crescita negativa a -0,3% (ipotesi peggiore -0,8%), per il 2011 1,5% (ipotesi peggiore 1%). Per il Portogallo +0,7% per quest'anno e +0,9% l'anno prossimo. Per la Spagna crescita negativa nel 2010 (-0,3%) e +1,2% nel 2011. Tale quadro però è precedente l'ultima fase, il che la dice lunga sulle difficoltà. L'attesa è che le nuove stime di Bruxelles non siano sostanzialmente diverse.
Il governo di Atene deve gestire un piano di tagli pari al 10% del pil in venti mesi. Spagna e Portogallo non arrivano a tali dimensioni, ma il loro sforzo dovrà essere comunque eccezionale. Il piano di tagli deciso da Madrid è di 50 miliardi in tre anni per portare il deficit/pil dall'11,2% nel 2009 al 3% nel 2013. Venendo a mancare il volano degli anni della crescita dorata, basti pensare alla valvola del settore immobiliare (sembra ieri quando la Spagna veniva decantata come modello da imitare) e con una disoccupazione che ha appena superato la soglia simbolica del 20%, è una prospettiva piena di incertezze. E' sbagliato fidarsi delle agenzie di rating, fra i responsabili non secondari della crisi finanziaria globale, ma le valutazioni che sottendono la decisione di declassare il debito a lungo termine spagnolo sono abbastanza condivise: nei prossimi cinque anni la crescita media annua del pil spagnolo sarà dello 0,7%. Il governo portoghese (minoritario in parlamento, ma 'forte' dell'appoggio dell'opposizione nella gestione della crisi economica), anch'esso sotto il tiro del declassamento di Standard & Poor's, deciderà entro pochi giorni nuovi misure per "cementare" il consolidamento di bilancio per rendere credibile il programma che dovrà portare il deficit/pil dal 9,4% nel 2009 al 3% nel 2013. Sul tavolo un'imposta del 20% sui guadagni di Borsa di quest'anno, privatizzazioni a valanga per ridurre il debito pubblico (pari all'86% del pil).
E' opinione condivisa che Spagna e Portogallo non siano la Grecia. Nessuno dei due paesi ha un problema di liquidità a breve e rischia di trovarsi nell'impossibilità di ripagare i debiti. E nessuno ha un problema di credibilità (mica hanno truccato i conti pubblici e manipolato i dati del deficit). Ciò lascia notevoli margini di azione. La vera incertezza riguarda la crescita economica: meno ce n'è, meno socialmente tollerabile sarà la terapia d'urto appena cominciata. Portogallo e Spagna sono di fatto più vulnerabili di prima ai rovesci dei mercati: la novità di queste ultime settimane è che ogni singolo settore sociale, ogni singolo cittadino si sente più vulnerabile. Quando si parla di stabilità dell'Eurozona non si parla soltanto di variabili macro-economiche, di forza/debolezza della moneta, di affidabilità nel sistema dell'unione monetaria (capacità/incapacità di prendere le giuste decisioni quando è necessario), si parla anche di stabilità sociale, oggi a rischio. In cerca di esempi, alla Commissione Ue e alla Bce amano ora riferirsi a un modello: l'Irlanda, fate come in Irlanda. In una crisi economica profondissima, alle prese con un piano di salvataggio dell'intero sistema bancario, è riuscita a sfuggire alla tempesta politico-finanziaria: invece di mascherare le difficoltà, il governo di Dublino ha cominciato subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria (2008) a produrre piani di austerità a ripetizione per stabilizzare il deficit con misure draconiane sui trasferimenti sociali e i salari pubblici.