Per l’oggi non c’è alcun allarme, ma fra qualche anno, pochi per i cinquantenni, tanti per i trentenni, gli effetti della crisi finanziaria sulla pensione si sentiranno, eccome. Da tempo, almeno dallo scoppio della ‘bolla’ dei subprime, l’enfasi sul pilastro privato della copertura previdenziale è stato sostituito da molta prudenza. Resta una delle gambe (pilastro appunto) da rafforzare per diversificare l’investimento a tutela del proprio futuro visto che, là dove la previdenza pubblica ha un ruolo fondamentale, man mano che si procede negli anni la copertura pensionistica si ridurrà drasticamente rispetto a quanto assicurato alle generazioni precedenti. Certamente, però, i “guadagni più poveri” realizzati nei mercati finanziari non aiutano a rasserenare. La novità è che dei rischi per i sistemi pensionistici d’Europa dovuti alla crisi finanziaria si sta discutendo in modo approfondito all’Ecofin sia a livello tecnico che a livello politico di ministri dell’economia. Ora, da un rapporto preparato per i ministri e che è stato tema di dibattito di numerose riunioni, trapela un allarme. Dice l’Ecofin: tutto sommato, i pensionati europei sono stati ben protetti dalla crisi, ma in futuro le pensioni “potranno essere colpite da periodi di disoccupazione e contribuzioni più basse e da guadagni inferiori sui dai mercati finanziari”.
E’ perfino ovvio: la crisi ha un impatto sull’attuale popolazione attiva in termini di disoccupazione o riduzione dell’orario di lavoro, ma occorre ricordarsi sempre che ci sarà un costo differito in termini di diritti pensionistici non accumulati “in particolare tra i giovani”. E’ un aspetto che ora non fa notizia perché non è a trent’anni che ci si pone il problema della pensione (e giustamente), ma classi dirigenti avvedute devono porselo in tempo per non trovarsi nei guai quando in Europa il numero dei 60enni e dei 70enni aumenterà sempre più velocemente (fino al 2025-2026) al ritmo di 2 oltre due milioni e quando, dal 2013-2014, calerà il numero dei 20-59enni (due milioni in meno previsti nel 2020).
La crisi finanziaria e la recessione hanno reso meno sostenibili i sistemi pensionistici cosicché l’indicazione è premere l’acceleratore sull’innalzamento dell’età pensionabile, un obbligo per tutti i paesi tenendo conto che in Europa solo circa il 40% dei sessantenni è occupato. In questo quadro, indicano i ministri finanziari, l’immigrazione va considerata una risorsa e non un fardello. Con un linguaggio un po’ pilatesco, i ministri dicono che “gli aspetti positivi della migrazione devono essere pienamente sfruttati”. Traduzione: più ci sono lavoratori/cittadini in regola e più ci sono soldi per finanziare il welfare nazionale.
Anche se in molti paesi sono stati compiuti progressi nella riforma dei sistemi pensionistici, la sfida è solo all’inizio (l’Italia fa parte del gruppo di paesi in cui la spesa per l’invecchiamento della popolazioni al 2060 aumenterà in misura “più moderata” secondo la Commissione europea, ma per quanto riguarda il livello "resta tra i più elevati nella Ue”). Il ragionamento è il seguente: i cambiamenti ai regimi pensionistici tendono a rendere i benefici per i pensionati dipendenti dall’andamento del mercato del lavoro e dei mercati finanziari per cui “l’adeguatezza delle future pensioni si fonderà in misura crescente sul buon andamento dell’economia, sulla capacità dei mercati del lavoro di offrire opportunità per carriere contributive lunghe e con poche interruzioni, sulla combinazione di sicuri e appropriati ritorni dai mercati finanziari” del denaro investito nei fondi pensioni. Attualmente, tutti e tre questi aspetti sono in forse.