Il Fondo monetario internazionale ritiene che la diffusione del coronavirus ridurrà la crescita globale quest’anno dello 0,1% a causa della riduzione dell’attività economica in Cina dello 0,4% (a 5,6%). Tuttavia ipotizza anche scenari peggiori se la crisi non si arresterà. Standard&Poor’s ha avanzato l’ipotesi che la riduzione del tasso di crescita possa essere attorno allo 0,3%, in Cina dello 0,7%, nell’area Asia-Pacifico dello 0,5%, negli Stati Uniti e in Europa dello 0,1-0,2%. Che significa per la zona euro passare dall’1,2% a 1-1,1%. Oxford Economics ritiene che un pil negativo anche nel primo trimestre in Italia “è quasi una certezza”. Tuttavia le stime per l’intero anno sono ipotesi al vento perché non si sa quanto tempo durerà la diffusione del virus e quanto grandi saranno le aree che potrebbero diventare “rosse”. Bruxelles non fa stime (almeno pubblicamente), ma chiede ai governi i dati aggregati sull’impatto sulle catene di approvvigionamento per l’industria. Viente evocato il rischio di un indebolimento ulteriore della “sovranità economica e tecnologica europea” e si pensa che ora si accelererà la fase di post-globalizzazione. Ne è convinto il commissario all’industria Thierry Breton.
Non ci sono né prese di posizione precise né analisi dettagliate che mettano in relazione il processo già in corso di riduzione dell’intensità della globalizzazione a causa delle politiche protezionistiche, dello sviluppo tecnologico, delle tensioni geopolitiche, e gli effetti delle contromisure possibili per fronteggiare una nuova pandemia. Tuttavia il fatto che i governi e la Commissione europea abbiano deciso di mettere all’ordine del giorno l’analisi rapida degli effetti della crisi del coronavirus sulla catena del valore europea mostra che si temono ripercussioni di medio-lungo periodo in una fase di estrema debolezza della crescita economica continentale.
Il censimento delle strozzature che già si stanno manifestando nel settore dei trasporti (dai voli si passerà presto ai Tir provenienti dall’Asia e dall’Italia se la situazione non sarà tenuta sotto controllo) e nel turismo, è propedeutico alla preparazione di misure di sostegno Ue. A disposizione delle autorità europee e degli Stati membri, se saranno in grado di coordinare la risposta a una possibile nuova crisi economica, ci sono molti strumenti. Non ultima la manovra monetaria, anche se la presidente della Bce Christine Lagarde non ha dato indicazioni di cambiamenti: ha indicato al Financial Times che la banca centrale sta monitorando “molto attentamente” l’epidemia, che però non è ancora nella fase in cui ha un impatto duraturo sull’inflazione. Forme di “helicopter money” (denaro pubblico versato direttamente ai cittadini) sono state decise solo da Hong Kong, Macao e Singapore.
L’Europa è fortemente integrata nelle catene globali del valore: circa il 70% del totale delle esportazioni è collegato alle catene di approvvigionamento, concentrata nel settore manifatturiero, nei trasporti, nelle comunicazioni. È vero che la frammentazione della catena produttiva all’interno del continente è fortemente sviluppata (basti pensare al peso e all’estensione della piattaforma produttiva nel centro Europa collegata all’industria tedesca). E che, come ricorda il Fondo monetario, “l’impatto di uno choc di crescita dell’1% negli Usa avrebbe un effetto cumulato su due anni di -0,6% sulla Ue in termini di prodotto lordo, mentre l’impatto dalla Cina sarebbe considerevole ma inferiore”. Tuttavia, l’esposizione a un blocco produttivo in Cina può essere fortemente dannosa per l’industria europea (dall’auto alla farmaceutica). In Cina si può sempre accelerare la rilocalizzazione degli impianti di case europee in altre aree asiatiche, tuttavia,per trasferire la produzione di automobili occorrono due-tre anni come minimo, secondo il Reshoring Institute (Usa).
Il rischio è che a strozzature nella catena produttiva globale si accompagnino blocchi interni al continente data la profonda integrazione tra le economie nazionali. E questo può accadere se il contrasto della diffusione del coronavirus dovesse portare a moltiplicare le “zone rosse” arrivando al ripristino dei controlli delle frontiere. Si teme la saldatura di questi due fenomeni. «Il coronavirus mette alla prova il nostro modello di integrazione nella catena produttiva globale perché la Cina è diventata centrale e troppo importante e ora il centro dello choc è lì: una probabile conseguenza sarà una rilocalizzazione più rapida delle catena del valore in altre aree scelte sulla base di molti fattori tra i quali il Covid-19 e l’eccessiva dipendenza dall’approvvigionamento produttivo cinese sarà scoraggiato, una buona notizia per il Messico come per l’Europa dell’Est”, sostiene l’economista spagnola Alicia Garcia-Herrero associata al centro di ricerca di Bruxelles Bruegel. Di qui a parlare di rilocalizzazione in Europa il passo appare molto lungo.
Secondo l’economista del Cepii di Parigi Sébastien Jean “la perturbazione sulle catene di produzione dà la misura del peso della Cina nella produzione di beni intermedi, se la paralisi della produzione perdurerà gli industriali cercheranno dei sostenuti in Cina e altrove. Già le crisi precedenti, come il terremoto in Giappone o le inondazioni in Tailandia nel 201, hanno mostrato che la produzione a valle può essere paralizzata. I settori più sensibili sono elettronica e informatica ma anche tessile, abbigliamento e l’automobile, le cui catene di approvvigionamento sono molto complesse”.
Rispetto agli scenari possibili, il riferimento a epidemie e pandemie passate possono dare un’idea della dimensione degli effetti economici e finanziari di quanto sta accadendo adesso. Ma occorre molto prudenza nel trarne affrettate conclusioni. La Banca mondiale stima che una pandemia influenzale globale della portata della ‘spagnola’ un secolo fa potrebbe costare il 4,8% del pil globale; il 2,2% del pil se la pandemia fosse moderata; il pil del Sud-Est asiatico perderebbe il 2% (53 miliardi di dollari), il pil dell’Africa sub-Sahariana l’1,7% (28 miliardi di dollari). Va ricordato però che la grande influenza del 1918-1920 infettò mezzo miliardo di persone uccidendone diverse decine di milioni. In uno studio pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità gli economisti Summers, Fan e Jamison hanno stimato che una pandemia con 720 mila morti nel mondo la perdita di reddito nazionale per i Paesi ad alto reddito sarebbe di poco superiore allo 0,3%, per i Paesi a reddito medio-basso fino all’1,6%. Resta da dire che per ora la diffusione attuale del coronavirus è lontana da tali ipotesi di partenza.
L’epidemia di Sars (2003) comportò una perdita di 40 miliardi di dollari in termini di calo di produttività; l’impatto economico e sociale di Ebola nell’Africa occidentale (2014-2016) è stato di 53 miliardi di dollari; l’influenza pandemica H1N1, la febbre suina del 2009 è costata un impatto del valore di 45-55 miliardi di dollari. “Si tratta di precedenti dai quali attualmente siamo lontani, però la situazione è da valutare in tutti i suoi aspetti e dobbiamo essere pronti a fronteggiare vari scenari”, indica una fonte europea coinvolta nelle discussioni diplomatiche di questi giorni. La cosa certa è che il coronavirus a Bruxelles viene considerato il rischio numero 1 per la stabilità economica.