A causa della crisi finanziaria il livello degli investimenti nella Ue risulta oggi del 2% inferiore la media storica. Ciò significa che il ‘buco’ di investimento è fra 230 e 370 miliardi posizionando l’Europa sotto il ‘trend’ di lungo periodo. Nel solo settore energia per raggiungere gli obiettivi europei fissati per il 2020 e il 2030, occorrerebbero investimenti annuali di 205 miliardi nei prossimi tre anni. Dati i livelli attuali di investimento in ricerca e sviluppo per raggiungere l’obiettivo di spesa in rapporto al pil entro il 2020 (tappa necessaria se la Ue vuole evitare l’indebolimento strutturale della posizione economica nel mondo e assicurare gli attuali standard di vita) sarebbe necessario un investimento totale di circa 100 miliardi fra il 2015 e il 2017, 50 miliardi in più all’anno rispetto alla spesa attuale. Per raggiungere l’obiettivo del 3% del pil quest’anno e mantenerlo per i prossimi cinque occorrerebbe una spesa aggiuntiva di 130 miliardi all’anno. Queste cifre sono contenute in un documento preparato dalla Commissione europea e consegnato ai ministri finanziari per le discussioni informali nella capitale lettone. È la dimostrazione che il ‘Piano Juncker’, con la costituzione del Fondo europeo per gli investimenti strategici, le garanzie europee per 16 miliardi più 5 miliardi di denaro ‘cash’ della Bei, potrà soltanto essere un primo passo, utilissimo, necessario ma limitato. Se, beninteso, funzionerà, se sarà davvero in grado di attrarre investimenti per 315 miliardi in tre anni (2015-2017), capitali che sarebbero prevalentemente privati.
Dai 315 miliardi previsti dal Piano Juncker in tre anni, grazie al famoso moltiplicatore 1 a 15 (un euro pubblico ne attrae 14 privati o, comunque, non provenienti dalle casse degli Stati), ce ne sono già disponibili poco più di una trentina. E’ il contributo per i progetti (in realtà alle piattaforme settoriali o regionali che raggrupperanno i progetti) che sarà assicurato dalle banche nazionali di promozione dello sviluppo: in Italia la Cassa Depositi e Prestiti, in Francia la Caisse des Dépots et Consignation (all’operazione partecipa anche Bpifrance), in Germania la Kfw, in Polonia la Bank Gospodarstwa Krajowego. Questi quattro ‘fondi sovrani’ europei interverranno con 8 miliardi ciascuna: totale 32 miliardi. Ai quali si aggiungono un miliardo e mezzo dell’Instituto de Crédito Oficial spagnolo e 80 milioni della Société de Crédit et d’Investissements lussemburghese. I soldi sicuri, finora, arrivano a 33,580 miliardi, poco più del 10% dell’obiettivo.
Poco o tanto non ha senso specificare adesso: il Fondo europeo per gli investimenti non è partito, è appena cominciato il negoziato fra governi e Parlamento sulle regole. La discussione non sarà facile perché gli eurodeputati non vogliono ridurre la spesa per la ricerca e sviluppo e quella per le grandi interconnessioni europee (trasporti, energia) spostando risorse dal bilancio europeo verso il nuovo Fondo. Il ‘piano Juncker’ non mobiliterebbe risorse aggiuntive come era stato promesso. Nessuno però scommette su un fallimento: in un modo o nell’altro le regole saranno approvate per rendere operativo il nuovo Fondo dal primo luglio. Non c’è gruppo politico o governo che intenda bloccare un’iniziativa del genere. Sul ‘Piano Juncker’ si gioca la credibilità l’intera costruzione europea.
Bei e Commissione ricordano sempre che il fatidico moltiplicatore 1 a 15 è “prudente”. E’ l’esperienza della Banca europea degli investimenti a mostrare che si può facilmente salire a 18 e anche a 20. Non ci sono, però, precedenti in un contesto di comportamenti deflazionistici generalizzati e di disindebitamento delle imprese e degli Stati. Si vedrà.
La Commissione analizza l’andamento degli investimenti nella Ue nel periodo 2012-2014 e propone questo schema. I paesi possono essere divisi in tre gruppi. Il primo è quello di cui fanno parte gli Stati della zona euro considerati vulnerabili, Italia compresa, in cui sia gli investimenti pubblici che privati sono crollati. Però tra il gruppo formato da Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda e l’Italia c’è una radicale differenza (a parte il fatto che l’Italia non ha avuto bisogno di essere salvata da nessuno): la caduta degli investimenti nei quattro paesi è stata caratterizzata anche dal crollo del settore immobiliare al contrario di quanto è avvenuto in Italia, un crollo legato a un livello insostenibile di investimenti in quel settore specie in Spagna e Irlanda.
Del secondo gruppo fanno parte gli Stati centro-orientali: Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Croazia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovenia, Slovacchia. La ripresa degli investimenti dipende dal flusso di fondi dall’estero che sono calati all’inizio della crisi e “restano cruciali per far proseguire a quelle economie” il processo di modernizzazione. Gli altri Stati (ecco il terzo gruppo), che includono i paesi ‘core’ della zona euro in condizioni di surplus dei conti correnti a cominciare dalla Germania più il Regno Unito, si dimostrano maggiormente in grado di resistere. Tuttavia Germania, Olanda, Austria e Lussemburgo più Danimarca e Svezia evidenziano un ribasso record del livello totale degli investimenti. In Germania e Olanda “l’alto livello di risparmio delle imprese non si traduce in un alto livello di investimenti”. Francia, Belgio e Finlandia aumentano gli investimenti in settori “non tradable” (i beni e servizi non possono essere venduti in un luogo distante da quello in cui sono stati prodotti) e sperimentano un deterioramento della loro competitività. Nel Regno Unito specializzato nei servizi (specie finanziari) e con una perdita di quote di mercato nel settore manifatturiero, l’investimento pubblico resta tuttora debole.