Da tempo non ci sono più riunioni ai massimi livelli della Commissione europea o dell’Eurogruppo dedicate al caso italiano. Il giudizio positivo sulla legge di bilancio 2015 e l’accettazione della linea governativa sul debito pubblico non solo danno tempo all’Italia per proseguire l’azione di riforma strutturale, confermano anche che la Ue ha imboccato la strada di un nuovo compromesso tra gestione prudente dei conti pubblici e azione a sostegno della crescita economica. Peraltro, ora il ‘grande sorvegliato speciale’ è la Francia, il paese che ha avuto più ‘sconti’ sul calendario per raggiungere obiettivi di bilancio sempre disattesi. Complice questa volta un deludente andamento dell’economia combinato alla reticenza a sbloccare un modello di crescita che sta mostrando la corda. Non va comunque sottaciuto che nell’ultimo rapporto sullo stato del Paese la Commissione europea indichi diversi pericoli per l’Italia e che dall’Italia possono essere generati. L’Italia, ricorda la Commissione, resta non soltanto vulnerabile a causa dell’alto debito pubblico con l’aggravante di un contesto di bassa crescita per un lungo periodo e di uno stato di deflazione. La sua posizione competitiva peggiora. Il drammatico calo degli investimenti rispetto alla media Ue ha eroso ulteriormente la base produttiva nazionale. L’esposizione delle banche al debito sovrano e l’enorme stock di crediti in sofferenza le rende virtualmente deboli. Infine, l’Italia è “potenzialmente una importante fonte di contagio negativo” per gli altri paesi dell’area. E’ sempre un paese troppo grande perché i vicini, grandi e piccoli, si disinteressino di quanto accade all’interno.
La Commissione europea non ha inteso lanciare un allarme sul caso italiano, ma l’analisi contenuta nel ‘country report’ appena pubblicato è interessante perché offre uno spaccato analitico delle interdipendenze tra gli Stati dell’Unione che possono essere gestite solo con un “più” di integrazione economica e politica non con “meno” integrazione. E’ un’analisi che rafforza la tesi di Mario Draghi che dal Parlamento europeo ha rivolto un ennesimo appello (inascoltato) ai governi della zona euro affinchè decidano coraggiosamente di condividere al massimo la sovranità su bilanci e politiche economiche. Altrimenti l’unione economica e monetaria rischia di fallire (Draghi non l’ha detto ma questa è la logica conseguenza delle sue parole). Una ulteriore condivisione della sovranità nell’area monetaria è il modo per gestire l’interdipendenza su scala dell’Eurozona.
Vediamo un po’ di cifre. L’Italia rappresenta il 16,5% del pil della zona euro ed è strettamente legata agli altri paesi attraverso il commercio e i canali finanziari. Per Germania, Spagna e Francia (e anche per la Slovenia e il Lussemburgo) è il mercato più importante di esportazione. Il totale delle esportazioni di beni e servizi rappresenta per l’Italia il 29% del pil: il paese dipende in larga misura dai mercati di Germania e Francia le cui importazioni dall’Italia sono pari rispettivamente al 3,7% e al 3,1% del pil italiano. Il primo elemento di valutazione degli economisti di Bruxelles è che l’incapacità di contenere gli attuali surplus commerciali nell’Eurozona ha esercitato una forte pressione sulla domanda aggregata. “Dato che la crescita italiana dipende in misura cruciale dall’export, gli aggiustamenti asimmetrici tra paesi debitori e paesi creditori nella zona euro esercitano un peso negativo sulla ripresa dell’economia nazionale”. Il rapporto di Bruxelles non analizza il peso delle esportazioni italiane di prodotti intermedi in Germania che poi a sua volta esporta i prodotti finiti, ma evidentemente non si ritiene che il vantaggio italiano che deriva dall’aumento dell’export tedesco sia in grado di compensare lo svantaggio di una bassa domanda aggregata.
Per quanto concerne i legami finanziari, l’esposizione della maggior parte dei paesi Eurozona attraverso azioni e strumenti di debito è moderato con l’eccezione di Irlanda e Malta, la cui esposizione totale verso l’Italia è pari all’83% del pil irlandese e al 38% del pil maltese (dati 2012). Francia e Regno Unito hanno una esposizione superiore al 10% del loro pil. Dall’altro lato, l’Italia è esposta in misura significativa agli investimenti in azioni in Lussemburgo (15% del pil italiano nel 2012), un po’ inferiore l’esposizione per gli investimenti in strumenti di debito (più che altro si tratta di questi e non di investimenti diretti o di portafoglio): tra il 7% e il 10% del pil nel Regno Unito, in Francia, Olanda, Irlanda e Germania.
Ciò che accade nel sistema bancario italiano è di cruciale importanza, dice la Commissione europea, per la Francia: le banche d’Oltralpe sono esposte sull’economia italiana per circa il 13% del pil francese (dati secondo trimestre 2014 essenzialmente per gli investimenti nel settore privato non bancario (8%). E’ della Germania la seconda esposizione più rilevante in termini assoluti. Il settore bancario italiano invece è esposto in misura significativa verso la Germania (12% del pil italiano) principalmente nel settore privato non bancario. Verso Regno Unito, Francia, Usa e Croazia l’esposizione è fra l’1,5% e il 2,5% del pil nazionale (l’esposizione verso la Russia era nel secondo trimestre 2014 pari all’1,4% del pil).
L’alto indebitamento pubblico, spiega ancora la Commissione europea, può avere effetti avversi di contagio. E’ una storia già vista anche se – è bene ribadirlo – non è l’Italia a essere oggi in prima linea e neppure nella seconda. Il canale di trasmissione è la valutazione riflessa nei mercati finanziari sullo stato e sui rischi del paese e la percezione del rischio. “L’alto livello di debito pubblico, al 133% del pil e la sfida per ridurlo in un contesto di bassa crescita può creare incertezza di mercato se si registrasse un affaticamento dell’aggiustamento di bilancio che conducesse a ulteriori rinvii” (il debito/pil dovrebbe scendere a partire dal 2016). L’esperienza della crisi del debito sovrano indica che l’aumento della percezione del rischio riguarda in particolare i paesi vulnerabili “Italia inclusa”, costituisce “un fattore determinante” nell’aumento degli spread sul debito sovrano e ha potenzialmente un impatto negativo sugli spread degli Stati periferici.
Tutto sta nel passare dalla dimensione “potenziale” alla dimensione reale, naturalmente. In questo senso, l’analisi della Commissione europea non costituisce un allarme. C’è tutto lo spazio e il tempo per evitare scenari pessimisti. Il fatto è che “crescita modesta, prolungata bassa inflazione e insufficiente coordinamento delle politiche rendono l’aggiustamento in Italia più difficile”. Lo scenario è questo: la fiacchezza della domanda nelle economie dei principali partner commerciali dell’Italia, trainata dal consolidamento di bilancio simultaneo in diversi paesi e dalla riduzione dell’indebitamento del settore privato rende più difficile confidare nella spinta dell’export. Ciò è aggravato dalla situazione ormai bloccata dei tassi (al minimo) in un momento in cui deve essere contrastata con decisione la deflazione e stimolata l’attività economica. Il contenimento di tali difficoltà poggia interamente in questa fase sulla Bce e sulle sue manovre di ‘quantitative easing’. Una spinta la daranno le riforme strutturali interne, ma la spinta interna potrebbe anche essere più forte se fosse combinata a riforme strutturali coordinate a livello europeo. Secondo stime della Commissione uno sforzo coordinato porterebbe a un risultato in termini di crescita migliore del 10%. Ci si chiede però se tutto questo potrà avvenire senza una spinta straordinaria che agisca sulla domanda. Perché il ‘‘piano Juncker’ per gli investimenti abbia effetto occorre aspettare almeno un anno e ancora non si sa bene di quale entità potrà essere. In ogni caso 315 miliardi sono davvero pochi.