LETTERA DA BRUXELLES Vigilanza bancaria alla Bce, una ‘rivoluzione’ anche politica

Novembre è un mese importante per l’Unione europea per diverse ragioni. La prima riguarda la supervisione bancaria, al via sotto la guida della Bce. La seconda riguarda la partenza dei cinque anni della Commissione europea. La terza riguarda l’agenda politica dell’Unione di cui non è responsabile soltanto l’esecutivo sotto la guida di Jean Claude Juncker, ma anche – e soprattutto – i governi dell’Eurozona e dell’Unione a 28 membri: saranno in grado istituzioni europee e governi di evitare il precipizio di una “stagnazione secolare” o quasi? Con l’unione bancaria l’Eurozona si è dotata di uno strumento fondamentale per poter reggere non solo alle crisi future, ma per sopravvivere in quanto “unione” di paesi con la stessa moneta: nonostante i limiti, le importanti influenze degli interessi nazionali (finanziari e politici, primi fra tutti quelli tedeschi), la vigilanza unica diretta nelle 130 banche dell’Eurozona è una mezza rivoluzione politica non solo nel settore finanziario.

Come tutte le fasi di avvio c’è già aria di fastidiosa celebrazione anticipata. Ma al netto della propaganda, è ovvio che si apre una fase radicalmente nuova. L’unione bancaria sotto egida Bce, che inevitabilmente avrà un effetto di trascinamento per il fronte dei paesi che non fanno parte dell’Eurozona con l’assai probabile esclusione della Gran Bretagna, non è una semplice “gamba” dell’unione economica e monetaria. E’ il pilastro della stabilità finanziaria dell’intera area. Non solo: è una delle condizioni fondamentali perché possa essere superata la grande crisi del credito. L’unione bancaria non era scontata: se non ci fosse stata la crisi finanziaria delle banche e degli Stati, tra loro fortemente intrecciate, i governi difficilmente l’avrebbero creata. Così si conferma che i processi di integrazione europea o sono completi, coerenti o l’Unione europea e le sue articolazioni (l’Eurozona in primo luogo) non possono funzionare, prima o poi rischiano di paralizzarsi se non di disintegrarsi.

Oltre alla supervisione unica ci sono le norme di un sistema europeo di risoluzione (gestione ordinata dei fallimenti), c’è l’European Stability Mechanism che, a certe condizioni, può intervenire a sostegno dei sistemi bancari e costituisce una specie di prestatore collettivo di ultima istanza (che non serve solo per salvare gli Stati). Non c’è ancora un ‘salvagente” finanziario europeo pubblico forte, ma a qualcosa che va certamente in quella direzione. Questa macchinosa costruzione ha uno scopo: ancorare la stabilità finanziaria, innestare un circolo virtuoso: banche meglio vigilate, potenzialmente tutte sotto possibile supervisione da parte della Bce, sottratte se possibile all’intreccio banche-politica così forte in molti paesi, innanzitutto in Germania, possono esercitare meglio la loro funzione fondamentale, fornire credito a imprese e famiglie. Da questo punto di vista, la supervisione unica favorisce la stabilità e la prevedibilità del contesto nel quale agisce la Bce in quanto organismo responsabile della politica monetaria con le operazioni non convenzionali per contrastare l’avvitamento nella deflazione.

Tra i fattori di crescita, la ripresa del circuito del credito è una condizione ineliminabile. Rivitalizzare i fattori di crescita è l’obiettivo dichiarato della nuova Commissione europea che comincia a lavorare sotto il moto ‘non più solo austerità’. Il primo appuntamento, sul quale Jean Claude Juncker si giocherà subito una parte del proprio capitale politico, riguarda il piano di investimenti per 300 miliardi promesso a più riprese: nel giro di qualche settimana Juncker dovrà uscire dalla vaghezza sui contenuti chiarendo innanzitutto se si tratterà di iniziative aggiuntive a quelle prese negli ultimi due anni (il famoso pacchetto da 180 miliardi) oppure si tratterà in gran parte di una rimessa a punto di cose già decise. Per ora ha parlato di “novità” senza specificarle. Si sa solo che la prospettiva del lancio degli eurobond è stata rinviata almeno alla prossima Commissione europea, cioè fra cinque anni.

Si capirà presto se la Ue intende attuare un’agenda politica davvero coraggiosa. Il tema della flessibilità sui bilanci pubblici non è stato affrontato una volta per tutte: la scelta di non bocciare le leggi di bilancio di Italia e Francia è stato un primo passaggio al quale ne seguiranno altri e non è detto che la nuova Commissione sarà meno rigida della precedente (che poi così rigida non è stata, semmai è stata timidissima e incapace di dar prova di effettiva autonomia di analisi e di scelta). I governi italiano e francese hanno dovuto correggere di poco i loro conti in seguito all’operazione di ‘moral suasion’ fatta dal commissario Katainen (che lascia la ‘sedia’ di commissario agli affari economici per occupare la ‘sedia’ di commissario alla crescita e alla competitività perdipiù con la carca di vicepresidente). La Commissione ha rinunciato per ora a chiedere aggiustamenti più forti, ma la partita è tutta ancora aperta.

Nel frattempo Mario Draghi ha indicato una via di uscita dalla contrapposizione austerità-crescita e dalla logica del rancore (da parte tedesca contro i paesi ‘flessibilisti’ del Sud) fondata su quattro elementi: politica monetaria non convenzionale per garantire prezzi stabili (non verso quota zero ma verso il 2% nel medio termine), politiche di bilancio credibili ancorate al patto di stabilità e crescita più investimenti pubblici, riforme strutturali con piani nazionali “credibili e concreti”, “ulteriori passi per condividere la sovranità nella ‘governance’ economica”. Questo è il nuovo “quartetto conciliabile” che va fatto suonare, ben diverso dal “quartetto inconciliabile” costituito dall’impossibilità di aspirare contemporaneamente a libero commercio estero, mobilità dei capitali, politiche monetarie nazionali indipendenti, tassi di cambio fissi, di cui parlava negli anni 80 il banchiere centrale Tommaso Padoa Schioppa. Questo “quartetto conciliabile” piace tanto ad Angela Merkel ultimamente meno brusca nei toni quando si parla di deficit pubblici. Ciò vuol dire che se ci sarà flessibilità dovrà esserci anche un controllo sulle politiche di bilancio ed economiche più stretto condiviso a livello europeo.