Se si vuole capire qual è l’atmosfera tra Londra e le altre capitali europee, principalmente Parigi e con toni più misurati Bruxelles, Roma, Madrid, basta seguirel’ultima polemica di fuoco dopo la grande rottura all’ultimo vertice europeo sul ‘patto di bilancio’ e le misure finanziarie anti-crisi. Impegnato non più a scongiurare il rischio del peggioramento del rating del debito sovrano con l’abbandono della tripla A, la massima valutazione della credibilità finanziaria dello stato, il governo francese ha cominciato a scendere dal piedestallo acconciandosi a gestire una probabile ritirata passando (Nicolas Sarkozy in persona) dal diniego alla ben più remissiva considerazione che se ciò davvero accadesse non sarebbe poi un dramma ingestibile. Contemporaneamente, però, si sono riaffilate le armi contro le agenzie di rating e Parigi ha indicato con precisione l’obiettivo: il Regno Unito. Un pezzo da novanta dell’’establishment’ francese e voce importante nella Bce come il banchiere centrale Christian Noyer ha affermato senza mezzi termini che prima di occuparsi della Francia le agenzie di rating farebbero meglio a occuparsi di quanto accade oltre Manica visto che il Regno Unito ha un deficit più alto, un debito pubblico simile a quello francese, inflazione più elevata e meno crescita. Tanto per dare una cifra, secondo le ultime stime Ue quest’anno il deficit/pil britannico è al 9,4%, il più alto tra i 27 dopo quello irlandese, stessa posizione l’anno prossimo a quota 7,8%.
Lo scenario è davvero brutto, si approfondiscono i contrasti politici, sulla valutazione dello stato dell’economia e sulle ricette da seguire. Se si continua così non ci sarà nulla di promettente per l’Unione europea che all’incapacità di creare uno sbarramento convincente alla crisi del debito sovrano aggiungerà la totale incertezza politica sul suo funzionamento complessivo. Ha avuto buon gioco la stampa britannica: non spetta a una banca centrale incoraggiare il peggioramento del rating di un altro paese (Times); Monsieur Noyer, lei è un imbecille da tripla A (The Sun); nazionalista! (Financial Times); la Francia si lancia alla guerra delle parole (Daily Telegraph).
Detto questo, un problemino britannico rispetto alle agenzie di rating c’è. E’ verissimo che i tassi a dieci anni dei bond sovrani Uk sono allo stesso livello dei Bund tedeschi e che ciò riflette tante cose, compresi la convinzione che oltre Manica un prestatore di ultima istanza c’è e che il programma di rientro dall’indebitamento viene giudicato credibile non solo dai mercati, ma dalla stessa Commissione europea. Ciò di cui si tiene meno conto, però, è l’effetto che potrebbe avere l’addio della tripla A francese rispetto all’impalcatura di salvataggio dell’Eurozona (i bond emessi dal Fondo salva-stati Efsf hanno la tripla A perché tra i garanti ci sono sei paesi con tale valutazione– oltre alla Francia sono Germania, Olanda, Austria, Lussemburgo e Finlandia) e l’effetto di una stagnazione-quasi recessione nell’Eurozona. Basti dire che il 40% delle esportazioni britanniche si dirige verso i paesi della moneta unica. Non a caso la Commissione europea ha recentemente segnalato come “le prospettive delle esportazioni è condizionata negativamente della incertezze dell’economia globale in particolare dell’Eurozona”. Con una domanda interna debolissima, le ciambelle di galleggiamento del Regno Unito si chiamano debolezza della sterlina e le operazioni di ‘quantitative easing’ della Banca d’Inghilterra (rafforzamento del programma di iniezioni di liquidità nell’economia).
Secondo Patrick Artus di Natixis (è francese d’accordo, ma le sue analisi sono considerate sempre piuttosto interessanti negli ambienti della ricerca economica europea) ad un certo punto il Regno Unito potrebbe trovarsi alle prese con una valutazione delle agenzie di rating non così positiva come l’attuale. E non essere più un porto di rifugio degli investitori in cerca di qualità. I quattro punti deboli da tenere sotto osservazione, secondo Artus, sono questi: le finanze pubbliche che non stanno meglio dei paesi Eurozona; la pessima prospettiva di crescita (0,7% quest’anno e 0,6% nel 2012) con dubbi sulla efficacia dell’azione per reindustrializzare il paese (i tassi di autofinanziamento delle imprese sono già alti); lo stato di “repressione finanziaria” che attraverso i requisiti sulla liquidità spinge le banche ad aumentare considerevolmente la detenzione di titoli pubblici; l’eccessiva dipendenza dalla finanza, il vero “monoprodotto” dell’economia britannica minacciato dalla concorrenza delle piazze asiatiche e dalla regolazione europea. A ben vedere, nessuno dovrebbe sentirsi completamente al riparo.