Dal primo maggio Germania e Austria apriranno pienamente il mercato del lavoro ai nuovi stati membri della Ue, gli otto paesi dell’Est, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria in testa. Il lungo periodo di transizione di 7 anni per acquisire pari diritto al lavoro in qualsiasi stato membro è finito, fatta salva l’eccezione per Bulgaria e Romania. Con i tempi che corrono, la Tunisia da un lato, la disoccupazione media nell’Eurozona al 9,9% (sia pure in lento calo) e una crescita economica molto lontano dall’essere esaltante dall’altro, si tratta di un evento destinato a creare non poche polemiche. La Commissione europea ostenta ottimismo sfoderando queste cifre: nel 2004 i cittadini degli 8 paesi dell’Est europeo (in quell’anno sono entrati nell’Unione) residenti nei paesi della Ue-15 (i vecchi membri) erano circa 1 milione (0,3% della popolazione totale), nel 2010 erano 2,3 milioni (0,6%), nel 2015 saranno 3,3 milioni (0,8%, nel 2020 3,9 milioni (l’1% circa). Non si può parlare, secondo Bruxelles, di una nuova massiccia ondata di lavoratori, l’iniezione di manodopera di media qualificazione farà bene alle economie dei 15 compensando i tanti (paradossali) posti di lavoro disponibili segnalati nell’industria e in altri settori in diversi paesi, sosterrà in prospettiva il deficit demografico.
Ciononostante l’attenzione di molte capitali è massima. Secondo la fondazione tedesca Friedrich Ebert l’impatto sulla Germania della futura immigrazione dagli 8 paesi dell’Est sarebbe, nello scenario di flussi elevati, un aumento del pil dell’1,16% e questo è un fatto positivo, ma anche un calo medio del livello dei salari dello 0,4% e un piccolo aumento del tasso di disoccupazione, 0,2%.
La fine del periodo transitorio per l’apertura totale delle porte del mercato del lavoro non è un dato negoziabile. Nel frattempo, però, è successo di tutto, in diversi paesi il voto continua a premiare partiti nazionalisti ed euroscettici (ultimo caso la Finlandia con il True Finns che a quintuplicato i voti facendo campagna contro il salvataggio del Portogallo). Il tema immigrazione, quella clandestina ma anche quella regolare, è il nervo scoperto di una Europa che si sta ancora leccando le profonde ferite della crisi economica e finanziaria. Il primo banco di prova per capire come reagiranno i governi è già pronto: si tratta delle regole sui permessi dei lavoratori stagionali non Ue, principalmente in agricoltura e turismo, settori ad alta intensità di manodopera immigrata. In queste settimane la parola è all’Europarlamento, già sotto il tiro incrociato di chi vuole ridurre gli incentivi alla regolarizzazione (la Commissione Ue stima che gli stagionali extraeuropei, compresi i clandestini, siano oltre centomila concentrati particolarmente in Italia e Spagna) e dei sindacati che difendono il principio di eguale trattamento dei lavoratori. Poi toccherà ai governi.