Davvero Germania e Francia (soprattutto la prima) hanno dichiarato ‘guerra’ all’aggiustamento automatico dei salari all’inflazione solo a Belgio, Cipro, Lussemburgo e Malta, i soli paesi che lo prevedono per legge? Certamente no, dal momento che questi quattro paesi tutti insieme contano più o meno soltanto 12 milioni di cittadini. Nell’intera Ue ce ne sono mezzo miliardo. Non è dunque questo che turba i sonni della cancelliera Angela Merkel e di Nicolas Sarkozy. Piuttosto è il messaggio politico insito nel semaforo rosso agli automatismi salariali che conta. L’idea è che una volta messo in soffitta il mito della crescita senza inflazione, il miglioramento della competitività nei paesi deboli dell’Eurozona passa per una forte ripresa della produttività e un costo del lavoro contenuto e “convergente”. In questo quadro la variabile dipendente per gli incrementi salariali è appunto la produttività. E’ un messaggio rivolto anche e soprattutto a quei paesi in cui l’adeguamento salariale al tasso di inflazione non è regolato dalla legge, ma forme di indicizzazione più meno intense sono largamente praticate.
Il caso più evidente è quello della Spagna, ma qui e là in diversi paesi è emersa da tempo la totale insoddisfazione dei sindacati per la difficoltà a recuperare ex post la differenza tra inflazione prevista e inflazione reale (per esempio in Italia). Merkel e Sarkozy non hanno fatto che allinearsi a quanto chiesto da sempre dalla Banca centrale europea, finora senza successo. Le prime reazioni alla proposta di “patto per la competitività”, di cui la fine dell’indicizzazione è un elemento importante, indicano che la strada è tutta in salita: il Belgio ha detto no, i sindacati europei promettono battaglia (ma su questa materia il peso della ‘centrale’ europea dei sindacati non è molto rilevante). L’accusa più o meno velata è quella di voler “germanizzare” l’Eurozona.
Nella maggior parte dei paesi europei la formazione dei salari è fondata sulla contrattazione collettiva e le differenze più rilevanti riguardano i livelli di maggiore peso della negoziazione. Alcuni paesi applicano ancora un sistema automatico di aggiustamento dei salari per legge: si tratta, appunto, di Belgio, Cipro, Lussemburgo e Malta. Un altro gruppo di paesi (Italia, Danimarca, Francia, Olanda) ha abolito tali meccanismi tra gli anni ’80 e gli anni ’90. In Italia la scala mobile venne cancellata nel 1992, l’anno successivo venne introdotto un nuovo parametro di riferimento della politica salariale: il tasso di inflazione programmato indicato dai documenti di bilancio. In Francia l’indicizzazione dei salari venne abolita dieci anni prima e, come sottolinea una ricerca di Eurofund (European foundation for the improvement of living and working conditions, organismo Ue), “anche se permangono numerose pratiche di collegamento automatico all’indice dei prezzi, queste sono oggi meno diffuse”. E’ invece parzialmente automatica l’indicizzazione dello Smic, il salario nazionale minimo garantito. In ogni caso il ‘codice del lavoro’ francese afferma esplicitamente che non si possono includere negli accordi collettivi clausole sul salario indicizzato sullo Smic.
Uno dei casi sul quale si concentra l’attenzione della Germania è quello spagnolo. Rileva Eurofund che anche la’ dove “l’indicizzazione dei salari non e’ prevista dalla legge, viene largamente praticata” con riferimento al tasso di inflazione previsto dal governo. Si tiene anche conto dell’aumento della produttività. Esiste una clausola di revisione dei salari nel caso in cui l’inflazione reale sia più alta di quella prevista. Nel corso della crisi economica attuale i tassi di inflazione sono risultati più bassi di quelli previsti: -1% nel giugno 2009 contro una stima del 2% annuale. Di conseguenza in alcuni settori le buste paga sono aumentate in misura inferiore al 2%. I sindacati però si sono opposti con l’argomento che in un periodo di recessione e’ necessario potenziare la domanda, non deprimerla riducendo il potere d’acquisto dei salari. Risultato: sono aumentate le cause in tribunale e spesso, indica Eurofund, le Corti hanno dato ragione ai dipendenti. La complicazione dei livelli di contrattazione fa sì che a proposito della Spagna qualcuno parli di una indicizzazione mascherata. In Germania inflazione passata e attesa sono stati entrambi fattori chiave nella contrattazione fino al 2004 e gli aggiustamenti del retribuzioni per l’inflazione superiore alle attese non sono la norma nel settore privato.
La mossa franco-tedesca viene vista con molta soddisfazione dalla Bce, che non perde occasione per ripetere quanto siano “dannose” le clausole che legano i salari all’inflazione nel momento in cui va impedito che l’aumento temporaneo della crescita dei prezzi nei settori energetico e alimentare si trasferisca ad altri settori dell’economia. Secondo la Bce non è corretto riferirsi solo ai paesi che hanno una indicizzazione per legge (in una analisi pubblicata nel bollettino economico del febbraio 2009, contava 7 paesi in cui esiste una forma di indicizzazione ai prezzi nel settore privato: oltre ai quattro Francia, Spagna e Slovenia). Da un’indagine effettuata dalla stessa Bce un paio di anni fa in 15 paesi europei (compresi tutti i grandi eccetto il Regno Unito) su 17mila imprese e’ emerso che in media un terzo ricorre ad aggiustamenti delle retribuzioni ai prezzi. Nel 60% dei casi si tratta di aggiustamenti annuali (mentre in Austria, Belgio e Spagna oltre l‘80% delle imprese modifica i salari una volta all’anno o più frequentemente, in Italia lo farebbe solo il 15%). Altra conferma della rigidità dei salari verso il basso: solo il 4% delle imprese ha dichiarato che le retribuzioni erano state ridotte nei precedenti cinque anni almeno una volta. E solo in Germania, rileva la Bce, è diffusa la riduzione dei salari nominali.