L’accordo di libero scambio tra Unione europea e Corea del sud che fa arrabbiare alcuni costruttori automobilistici e pochi paesi (prima fra tutti, anzi per la verità quasi esclusivamente, la Fiat e l’Italia) a causa degli indubbi vantaggi perlomeno a breve assicurati all’industria coreana nella fascia medio bassa (sotto i 1500 cc). Il caso Pakistan e il commercio usato come leva per finanziare l’aiuto umanitario (giusto, anzi doveroso) con la sospensione dei dazi per tre anni su 74 prodotti, l’immediata sollevazione del settore tessile (in particolare di quello italiano che rappresenta un buon terzo della produzione europea). Sono questi gli episodi più recenti delle difficoltà della politica commerciale europea, mai come in questi mesi al centro di uno scontro politico di rara intensità.
Il contesto non è dei migliori. Con l’euro a quota 1,40 sul dollaro e la quasi certezza che sarà impossibile fermarne la corsa, la corsa semiglobale alla svalutazione competitiva (del dollaro) e alla non-rivalutazione competitiva (dello yuan), la politica commerciale diventa sempre più un cuneo nelle relazioni tra i grandi paesi e le grandi aree economiche. Basti pensare a quanto accade negli Stati Uniti, che si preparano a confezionare un’arma di riserva contro Pechino qualora alla Camera dei rappresentanti dovesse passare in via definitiva la legge che permette agli Usa di applicare dazi sulle importazioni dai paesi le cui valute risultano sottovalutate ad arte. Se si aggiunge lo scenario di bassa crescita (in Europa durerà per parecchi anni), si può avere un’idea della non rosea situazione. E’ un cuneo che sta nuocendo anche alle relazioni i tra i paesi membri dell’Unione europea.
Da settimane a Bruxelles si discute parecchio (fuori dalle metafore: si litiga duramente) su una questione che a dirla usando l’”eurocratese” fa venire il voltastomaco: riforma della comitatologia (o comitologia). Se si danno ai termini i giusti significati la questione è, in realtà, molto semplice e tocca interessi rilevanti. La ‘comitatologia’ è una procedura per cui la Commissione si avvale di comitati composti da rappresentanti degli stati membri nei quali si costruisce un dialogo, una posizione comune prima di adottare delle decisioni esecutive. Il Trattato di Lisbona impone una revisione delle regole sul controllo delle funzioni esecutive della Commissione che, appunto passa anche attraverso i ‘comitati’ dei Ventisette. Per il commercio, la proposta sul tavolo è che la politica del settore, incluso il sistema di difesa commerciale, sia pienamente integrata nel regime normale di comitatologia, mentre finora si è avvalsa di procedure particolari previste dai regolamenti in materia di anti-dumping e anti-sovvenzioni. Si tratta in sostanza di passare da un sistema in base al quale il Consiglio (cioè i 27 ministri del commercio) può bloccare una misura della Commissione a maggioranza semplice (14 voti su 27) a un sistema in cui la Commissione adotta in via definitiva misure anti-dumping e dazi compensativi e gli stati membri votano a maggioranza qualificata. Una bocciatura, quindi, diventerebbe più difficile.
La motivazione è quella illustrata dal commissario al commercio Karel De Gucht in una lettera riservata inviata ai ministri qualche settimana fa: oltre a essere coerente con il nuovo Trattato: il nuovo sistema “renderebbe gli stati membri, i loro esportatori e importatori, molto meno vulnerabili al lobbismo diretto e indiretto”. Alla Commissione sono convinti, infatti, che la possibilità per 14 stati di bloccare una misura di difesa commerciale (ad eempio per fronteggiare i picchi di importazioni provenienti dall’Asia) fa sì che “i paesi terzi esercitano pressioni sugli stati membri per evitare i dazi”. Ciò assume la forma non solo di azioni dirette di lobbying, ma di azioni che non c’entrano nulla con le scarpe vietnamite, le lampadine o i microchip cinesi: “Le esportazioni degli stati Ue o i loro investimenti nei paesi terzi – scrive De Gucht – sono minacciati di ritorsioni se lo stato non si oppone alle misure di difesa commerciale in questione”.
Come spesso accade sulle questioni commerciali, la Ue si divide in due fronti contrapposti: da una parte il fronte che raccoglie Regno Unito e paesi del nord (liberoscambisti a oltranza e con forti interessi nella gestione dei flussi commerciali), dall’altra parte i paesi manifatturieri del sud (Italia compresa) e dell’est. Nel caso della riforma del sistema di decisione puntualmente la spaccatura è stata confermata: dieci paesi a favore della proposta della Commissione (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria, Grecia, Cipro), il resto contro (con la Germania sempre molto attenta a tutelare la posizione di leader dell’export e della produzione diretta in settori chiave nei paesi terzi dall’Asia all’America Latina). Dieci contro 17: i numeri danno esattamente l’idea esatta degli interessi in gioco