Sulla carta, cioè in base al Trattato di Lisbona che potrebbe entrare in vigore dal primo dicembre, non cambierà molto il quadro del coordinamento delle politiche economiche in Europa. La vera novità sta nel fatto che l’Eurogruppo viene esplicitamente citato in un protocollo (con identico valore legale di un trattato) che afferma tre cose molto importanti. La prima è che i paesi con moneta unica vogliono “sviluppare un coordinamento sempre più stretto delle politiche economiche della zona euro” in un “dialogo rafforzato in attesa che l'euro diventi la moneta di tutti gli stati membri dell'Unione”. La seconda è che “si riuniscono a titolo informale”. La terza è che “tali riunioni hanno luogo, a seconda delle necessità, per discutere questioni attinenti alle responsabilità specifiche da essi condivise in materia di moneta unica”.
Si puo’ dire che non è granché. Il Trattato di Lisbona non fa che certificare quanto già esiste, viene formalizzato che… l’Eurogruppo è un organismo informale. Ma nella logica delle istituzioni europee, che procedono a piccoli e lenti passi piuttosto che a salti improvvisi, è molto. Ciò che l’Eurogruppo, perno del coordinamento delle politiche economiche, di bilancio e di riequilibrio in Europa, ha guadagnato è una indiscussa dignità istituzionale che prima non aveva. Non solo: viene ricordato un fatto che spesso si dimentica, l’euro è la moneta dell’Unione europea, se non tutti l’adottano è perchè o hanno ottenuto una esenzione (l’opt-out per Regno Unito e Danimarca) o perchè gli altri paesi non sono nelle condizioni per adottarlo e cercano loro stessi di non raggiungerle per non adottarlo. Inoltre non va dimenticato che stando alla valutazione di diversi ministri attuali ed ex ministri del Tesoro oltrechè della Commissione europea, una formalizzazione dell’Eurogruppo implicherebbe una serie di procedure che nella migliore delle ipotesi ne rallenterebbero la capacità di prendere decisioni, ingabbiandolo nella “matassa” della prassi bruxellese.
Ciò non vuol dire che tutto funziona come sarebbe auspicabile. La gestione della crisi finanziaria prima e della recessione poi fornisce, infatti, un quadro di luci e ombre. Bene la risposta alla crisi sia per salvare le banche sia per fronteggiare la caduta della domanda aumentando i deficit pubblici; bene la conferma che le ‘exit strategy’ devono essere strettamente coordinate ed essere coerenti con le esigenze di stabilità di un’area più vasta. Meno bene se guardiamo ai fatti. Ora ci troviamo nella fase delle exit strategy, se ne parla da mesi e si misura l’evidente difficoltà ad attuare tali principi. Sulla necessità di preparare adesso le ‘exit strategy’ sui conti pubblici annunciando programmi di riduzione dei deficit da mettere in pratica in futuro (al piu’ tardi dal 2011) si continua a procedere in ordine sparso sia nell’Eurogruppo che nell’Ecofin. Chi insiste solo sul fatto che ora è troppo presto per “ritirare” il sostegno pubblico all’economia (cosa giustissima perchè la ripresa è appena abbozzata) in realtà intende dire: del resto ci occuperemo dopo.
L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona aiuterà a far compiere dei passi avanti a un vero coordinamento delle politiche economiche oltre gli attuali parziali tentativi? Una potenzialità emerge da una delle più grandi novità del Trattato, la creazione di un ‘quasi ministro’ degli esteri, l’alto rappresentante che guiderà la politica estera, di sicurezza e di difesa comune dell'Unione. Dato che agirà come “mandatario” del Consiglio cioè per conto dei (veri) ministri degli esteri, il suo raggio di autonomia sarà forzatamente limitato. Un po’ come il presidente dell’Eurogruppo (che però al contrario del futuro ‘ministro’ degli esteri Ue è ‘informale’). Se con tutti i limiti del caso le due funzioni vengono viste in prospettiva si può dire che ora la Ue non solo batte moneta, esercita pure un ruolo nella politica estera e di difesa. Ne detiene il monopolio di rappresentanza a patto che ci sia l’accordo tra gli stati membri. Come per la politica estera e di difesa anche per le politiche fiscali si continuerà a votare all’unanimità e la sovranità sulle politiche di bilancio, in termini legali, resta nelle mani dei governi nazionali. Ciononostante l’esigenza di un coordinamento stretto delle politiche economiche si è imposta oltre gli stretti limiti delle norme europee. Le premesse perchè i due livelli, politica economica e politica estera, interagiscano (magari rafforzandosi l’una con l’altra) ci sono. Ora si tratta di vedere se ciò avverrà.