Parte sotto attacco britannico la discussione dei capi di Stato e di Governo della Ue, riuniti in un vertice straordinario per confezionare la risposta al voto europeo e non solo per trovare un accordo – ancora lontano – sulle nomine delle istituzioni europee, in primo luogo del presidente della Commissione. David Cameron chiede aria “fresca”, un approccio politico nuovo contro le intrusioni della Ue nella vita e nelle scelte degli Stati nazionali. Nelle ultime ore ha lavorato con diversi “colleghi” per costituire un fronte per una svolta nelle politiche europee del quale fanno parte Olanda, Finlandia, Svezia. L’obiettivo è il rimpatrio di poteri da Bruxelles, meno interferenze su gestione delle frontiere, polizia, sistemi giudiziari. In realtà tutti i leader dichiarano che così com’è la Ue non funziona, non soddisfa i cittadini, è o viene vissuta come il problema da risolvere. Lo stesso Matteo Renzi intende far leva sulla vittoria elettorale e sulla presidenza semestrale della Ue per imporre un cambiamento effettivo delle politiche economiche e forse anche di qualche regola di “governance”. Ma identiche parole non significano identiche visioni politiche. Basti un solo esempio: a Renzi che chiede più solidarietà dei governi per gestire l’immigrazione da sud, Hollande ha risposto che la Francia intende “proteggere le proprie frontiere”.
Tutti i leader ripetono la stessa cosa, quasi una litania: prima occorre discutere di priorità, strategie, scelte, poi passiamo ai nomi. In realtà le cose sono strettamente intrecciate: scegliere come presidente della Commissione europea un convinto ‘federalista’ (propensione oggi in disarmo di fronte alla forza dell’euroscetticismo e dell’eurofobia) renderebbe ancora più forti Marine Le Pen in Francia, gli indipendentisti di Nigel Farage, primo partito in Gran Bretagna, ma complicherebbe molto le cose a governi che euroscettici non sono, ma sono pronti a difendere quanto resta della sovranità nazionale con le unghie e i denti. Cameron, il polacco Tusk, lo svedese Reinfeldt, l’ungherese Orban, non vogliono Juncker alla testa della Commissione. Continua a circolare la tesi che vede Merkel impegnata a far passare in seconda battuta Christine Lagarde (Fmi): scelta di smalto, ma non sarebbe un gran segnale per l’opposizione di una parte degli elettori al metodo Troika.
Sulla nomina si inserisce il fatto politico nuovo del ruolo del Parlamento che ,con una geniale operazione politica, obbliga il Consiglio a fare i conti con i candidati dei gruppi politici. Il Parlamento conta perché alla fine dovrà approvare o respingere il designato, ma i governi pensavano di poter tenere il pallino in mano fin dall’inizio della partita. Un accordo si troverà a fine giugno, nel frattempo ognuno fa la sua parte.
In teoria sono chiare le priorità sulle quali deve lavorare la Ue nei prossimi anni, priorità sulle quali la Commissione è la sola ad avere il diritto di iniziativa legislativa: lavoro, sostegno alla crescita economica, immigrazione, diversificazione delle fonti energetiche, mercato unico delle tlc, trattato commerciale con gli Stati Uniti, maggiore integrazione dell’Eurozona. Però su tutti questi argomenti le visioni e gli interessi nazionali sono diversi, spesso profondamente divergenti. A queste priorità i britannici antepongono la carta del rimpatrio delle competenze, argomento chiave per frenare gli euroscettici di casa. Argomento sensibile per troppi paesi, a cominciare dalla Francia che, attanagliata dalla doppia crisi economica e di leadership del presidente Hollande, sotto l’avanzata del Front National irrigidirerà messaggi, posizioni, richieste su commercio, politica di concorrenza, regole sulla circolazione dei capitali in difesa dei campioni industriali nazionali.
Le discussioni non si esauriranno questa sera o questa notte. Né si concluderanno con gli accordi sulle nomina del presidente della Commissione e del ‘ministro’ degli esteri (sul piatto ci sono anche presidenze Ue ed Eurogruppo). Mentre si rischia di accarezzare frettolosamente il pelo dell’euroscetticismo, alcuni governi vanno in senso opposto. Renzi, oggi il politico progressista più forte d’Europa, vuole una virata visibile delle politiche europee nel senso di un nuovo equilibrio tra consolidamento dei bilanci pubblici e azione pro crescita sia a livello europeo sia a livello nazionale (a favore della seconda ma senza mettere in discussione il controllo dei conti pubblici). L’obiettivo è avere “tempi ragionevoli” per ridurre l’indebitamento, definire degli accordi tra Stati e Ue per ottenerli a fronte di azioni decise e verificabili/verificate di riforma che migliorino le finanze pubbliche in modo strutturale e la condizione competitiva del paese. E’ il fronte già aperto con la Commissione (tra sei giorni arriveranno i giudizi sul Documento di economia e finanza) e all’Eurogruppo. Renzi vuole andare più in là cercando il modo di trovare spazi nelle regole Ue per liberare fondi per gli investimenti.
Questa strategia richiede flessibilità e scelte che la Germania potrebbe fare solo in presenza di un a integrazione più stretta dell’Eurozona. Richiede quindi una concentrazione ancora maggiore della sovranità condivisa. Questa però anche nell’Eurozona dopo il voto è diventata una merce rara senza piazzisti, innanzitutto in Francia. Difficilissimo aprire un discorso sulle modifiche ai Trattati sulle regole (magari per escludere certi investimenti dal calcolo del deficit/pil o per avere maggiore flessibilità nell’uso dei fondi strutturali) come vuole indicare in prospettiva il governo italiano: in diversi paesi il nuovo trattato dovrebbe passare a un referednum e chi se la sente di rischiare la bocciatura?
La cancelliera tedesca è molto sensibile agli argomenti britannici sul diverso equilibrio tra sovranità nazionale e poteri Ue, ma non certo fino al punto di scardinare il mercato unico. Nell’Eurozona però vuole portare al massimo grado l’integrazione. Così potrebbe profilarsi un’Eurozona più integrata, sulla base di intese intergovernative che potrebbero comprendere anche altri paesi, e una Ue un po’ meno integrata di quanto sia oggi. Lo spazio politico per un processo del genere, secondo molti necessario, oggi però appare piuttosto ridotto.