Il voto dell’Europarlamento contro l’Ungheria di Victor Orban per rischio di violazione dello Stato di diritto (non contro gli ungheresi), potrebbe produrre fatti politici rilevanti anche se la procedura per arrivare alla sanzione ‘bazooka’, cioè la sospensione del diritto di voto in Consiglio, sarà bloccata nella fase finale perché occorre l’unanimità. La Polonia, essa stessa sotto tiro per gli stessi motivi per cui è sotto tiro l’Ungheria, ha già anticipato che metterà il veto.
È sul Partito popolare europeo e in particolare sulla candidatura a futuro presidente della Commissione del capogruppo Ppe Manfred Weber, designato dalla cancelliera Merkel, che si scaricheranno le prime tensioni. Fidesz, il partito di Orban, fa parte del Ppe. Weber ha come missione di fare il ‘pontiere’ fra la destra classica europea e un variegato estremismo di populisti, euroscettici, eurofobici, euroindifferenti, che ora tenta una più o meno esplicita alleanza elettorale per scardinare il vecchio quadro politico Ue che si fonda su Ppe, Partito socialista, liberali e Verdi, con i primi due che si spartiscono le massime cariche della Ue (Commissione, Consiglio e Parlamento). Un assalto al quale in Italia, Lega e M5S, intendono partecipare attivamente. Se si aggiunge l’indebolimento strutturale della Ue a causa della Brexit (non per colpa dell’Unione), che sarà solo lenito dall’accordo di partenariato che si tenta di raggiungere, il quadro resta molto fragile.
La vicenda politica europea è tutta in divenire, ma le tensioni profonde cui è sottoposta l’Unione europea da tempo stanno producendo delle conseguenze sulla tenuta istituzionale dell’Europa. Ci si chiede giustamente se gli attacchi di Trump sul commercio oppure gli strattonamenti sul finanziamento in sicurezza (Nato) ci sarebbero stati se la Ue fosse coesa, forte sul piano politico globale come lo è oggettivamente nell’economia. Sull’immigrazione sono lontane scelte strategiche condivise.
Si comincia a temere che le tensioni politiche, le divisioni sulle stesse prospettive della Ue, si scarichino prima o poi anche sull’economia. Passando per la moneta unica. Non è un caso che nel suo discorso sullo ‘stato dell’Unione’, il presidente della Commissione Juncker abbia annunciato che entro l’anno presenterà una proposta formale per rafforzare il ruolo internazionale dell’euro rispetto al dollaro. L’euro come simbolo della “sovranità europea”, contrapposta al sovranismo dell’intolleranza, della chiusura nelle ‘fortezze’ nazionali, nell’odio (Juncker oggi ha parlato proprio di odio). Anche i simboli fanno la loro parte. Si vuole evitare che l’euro subisca gli effetti di una crisi politico-istituzionale di lungo periodo e non sarà facile.
Tuttavia, si sa che il miglior modo per rafforzare l’euro sarebbe completare l’unione monetaria creando i pilastri mancanti dell’unione bancaria (il sistema unico di garanzia dei depositi), procedendo verso un’integrazione maggiore delle politiche economiche e di bilancio, condividendo responsabilità ma anche rischi finanziari degli Stati. Il problema è che non si vedono all’orizzonte colpi d’ala da parte dei governi più influenti e della Germania in particolare a procedere rapidamente in tale direzione. Le basi programmatiche, la confusione della maggioranza di governo in Italia sul ruolo dell’Europa e l’asserita volontà di Lega e M5S di puntare allo scardinamento dell’attuale quadro Ue danno un ulteriore serio argomento a chi frena processi più coraggiosi. Così si alimenta ancor più la paralisi. Solo che non ci troviamo in tempi in cui si può aspettare tranquillamente che la crisi passi.