Lo scontro aperto tra presidente dell’Eurogruppo e Commissione europea sulla ‘svolta’ espansionista è solo un assaggio della discussione che i ministri finanziari avranno lunedì prossimo nella capitale belga, per l’ultima riunione dell’anno. Jeroen Dijsselboem ha alzato un segnale di stop e dato che è già noto il no del ministro tedesco Wolfgang Schaeuble: ciò significa che non ci sarà l’appoggio dell’Eurogruppo a una “manovrona” da 50 miliardi nella zona euro per aiutare la Bce a rafforzare la ripresa economica e a risollevare stabilmente i prezzi. Non che ci si aspettassero conclusioni precise, ma non far neppure decollare un confronto sulle scelte di politica di bilancio sarebbe un segnale sbagliato. Se fosse accettata la proposta di Juncker, i benefici per l’Italia, in ogni caso, sarebbero indiretti, perché la Commissione ha appena chiesto al governo di assicurare il rispetto del patto di stabilità con il bilancio 2017 a dimostrazione che non ci sono spazi per ulteriore espansione in deficit. Il carico della ‘manovrona’ sarebbe tutto per Germania e Olanda.
In qualche modo la discussione sulla ‘svolta’ espansionista nella zona euro ha a che fare con la gestione della fase molto complicata delle politiche europee, data l’estrema incertezza per l’avvio di dodici mesi cruciali per la stabilità di molti governi (referendum in Italia e presidenziali in Austria domenica, elezioni politiche a marzo in Olanda, presidenziali in Francia ad aprile-maggio, legislative in Germania in autunno) e per l’orientamento delle politiche Ue in ambiti delicatissimi: immigrazione e sicurezza, innanzitutto, poi economia e bilanci pubblici.
Ieri, il presidente della Bce Mario Draghi non aveva mandato alla Commissione segnali incoraggianti sulla ‘svolta’ espansionistica nel 2017 e nel 2018, anche se lui stesso due anni e mezzo fa disse che “sarebbe utile avere una discussione sulla posizione di bilancio complessiva (fiscale stance) nella zona euro, un coordinamento più forte tra le diverse posizioni nazionali ci permetterebbe in linea di principio di avere una posizione di bilancio complessiva per l’Eurozona più favorevole alla crescita”. All’Europarlamento, Draghi ha accentuato di più l’elemento del rispetto del patto di stabilità aggiungendo che le indicazioni di ‘policy’ attiva da parte della Commissione “non sono vincolanti”.
Dijsselbloem ha sostenuto oggi le stesse cose con maggiore durezza (e scetticismo). Ha detto che “c’è una certa tensione fra le raccomandazioni della Commissione europea per un orientamento di bilancio favorevole alla crescita e le regole del patto di stabilità, ma la responsabilità primaria della Commissione è far rispettare il patto di stabilità: non dico questo come rigido calvinista, io sono cattolico, però è un fatto che abbiamo esperienza di quanto sia importante la credibilità del patto”. I soli che possono agire sono i paesi che hanno spazio di bilancio per poterlo fare, però non possono essere obbligati da nessuno.
La Commissione ha risposto, indicando che la proposta di usare lo spazio di bilancio là dove esiste per finanziare investimenti nella misura di 0,5% del pil Eurozona (50 miliardi appunto) è legittima. Che non ci siano le condizioni politiche perché Berlino si ‘pieghi’ pubblicamente all’evidenza che può fare di più per la crescita interna e della zona euro (la Germania è in surplus di bilancio in termini nominali dal 2014 e in termini strutturali dal 2013) è evidente: nulla cambierà, se cambierà, fino alle elezioni del prossimo autunno. E così in Olanda. Così sarà interessante vedere come l’Eurogruppo, se seguirà la linea tradizionale che esclude un attivismo di bilancio oltre la pratica della “neutralità” dell’impatto sulla crescita, confezionerà il messaggio. Che Pier Carlo Padoan intenda sostenere la ‘svolta’ comunitaria è scontato, ma i toni dipenderanno dall’esito del referendum, naturalmente.
La debolezza della posizione di Dijsselbloem è emersa questa mattina quando, incalzato da un europarlamentare che gli chiedeva che cosa pensasse dell’attuale posizione di bilancio della zona euro, se fosse sufficiente a sostenere la crescita e la Bce nell’azione di ‘quantitative easing’, si è limitato a riproporre la tesi per cui la priorità del compito della Commissione è dimostrarsi ‘guardiano’ credibile del patto di stabilità. Ma anche la posizione della Commissione ha delle debolezze: pur rompendo (tardivamente) il tabù della manovra espansiva, non è arrivata fino alle estreme conseguenze prefigurando una distribuzione degli sforzi. Si tratta, però, di una debolezza ‘costitutiva’, dovuta al disaccordo esistente tra i governi e al fatto che non esiste nell’attuale architettura della ‘governance’ economica un meccanismo per forzare i paesi che hanno la possibilità di perseguire politiche fiscali “positive” a farlo.
Peraltro, Juncker non pensa a un attivismo di bilancio di segno espansivo generalizzata, bensì sostenuto dai paesi che possono permetterselo. La stessa cosa dice Dijsselbloem: le parole coincidono eppure la divisione sull’indirizzo politico è lì sotto gli occhi di tutti.
Per la Commissione sono tre le ragioni che spingono a sfruttare “una finestra di opportunità unica per la Ue di prendere una iniziativa sul fronte dei bilanci in un particolare momento espandendo le politiche di bilancio oltre gli stabilizzatori automatici allo scopo di sostenere la domanda aggregata”. Prima ragione, il livello dei tassi di interesse attorno allo zero. Seconda ragione, una crescita “scadente” che crea un grande scarto tra crescita potenziale e crescita effettiva. Terza ragione, l’eccesso di debito delle famiglie. “Tutte e tre queste condizioni si verificano oggi nella zona euro”, spiega una ‘nota strategica’ pubblicata dalla Commissione europea. In tali circostanze, i ‘moltiplicatori fiscali’, cioè gli effetti delle scelte di bilancio sull’economia, “sono più veloci e più ampi rispetto a condizioni economiche normali”.
Nella stessa nota comunitaria (una nota tecnica che non costituisce una proposta politica), qualche cifra emerge. C’è una lista dei paesi che hanno ‘spazio di bilancio’ e paesi che non ce l’hanno. Nessun paese, intanto, “fronteggia pressioni sul bilancio a breve termine”, nonostante che alcuni Stati rischino di non rispettare nel 2017 il patto di stabilità (è anche il caso dell’Italia). Sette Stati hanno “margini” nel bilancio per finanziare la svolta espansiva della zona euro: Estonia nella misura del 4,2% del pil, Germania 0,8%, Lettonia 1,9%, Lussemburgo 4,8%, Malta e Slovacchia 0,6%, Olanda 0,9%. Nella lista di chi non ha spazio ci sono l’Italia (spazio ‘negativo’ del 3,8% del pil), la Francia (3,6%) e la Spagna (3,3%) anche considerando la flessibilità ottenuta sui conti pubblici.
I sette paesi potenzialmente ‘espansivi’, tra cui primeggiano per ragioni di dimensioni economiche Germania e Olanda, rappresentano oltre il 37% del pil Eurozona, la Germania da sola rappresenta il 27%. Lo stimolo di bilancio combinato sarebbe pari allo 0,2% del pil Eurozona, con la Germania “nella parte del leone” con lo 0,22% dello sforzo totale.