Martedì prossimo (3 maggio) la Commissione europea pubblicherà le nuove previsioni macroeconomiche sulla base delle quali giudicherà le politiche di bilancio (anche dell’Italia) entro la prima metà del mese. Siamo appena entrati nel terzo anno di crescita positiva, le valutazioni di consenso indicano che la ripresa economica continuerà, grazie alle condizioni monetarie che restano molto favorevoli. Però la ripresa sarà meno intensa di quanto previsto qualche mese fa. Mario Draghi lo ha ricordato più volte: è necessario tempo. Di qui una certa rassegnazione: a ravvivare la crescita non basterà certo la spintarella del ‘Piano Juncker’ sugli investimenti a cambiare le carte.
A febbraio la Commissione europea indicava per quest’anno una crescita del pil nella zona euro dell’1,7% (dopo 1,6% nel 2015) e nel 2017 dell’1,9%. A marzo la Bce indicava valori più bassi, rispettivamente 1,4% e 1,7% (1,8% nel 2018). Infine le recentissime stime del Fondo monetario internazionale: 1,5% quest’anno, 1,6% nel 2017, 1,5% nel 2018. Vedremo se per il 2016 gli economisti di Bruxelles saranno leggermente più ottimisti di Bce e Fmi. A quanto risulta l’analisi dei rischi non cambierà rispetto a febbraio, quando Bruxelles indicò che la ripresa era sempre lenta in prospettiva storica e rispetto ad altre economie avanzate. La previsione flash di Eurostat per i primi tre mesi dell’anno, la prima del suo genere appena trenta giorni dopo la fine del trimestre di riferimento, indica che il pil è cresciuto nella zona euro dello 0,6% rispetto all’ultimo trimestre 2015 (+0,3%). L’aspettativa era di un incremento del prodotto di 0,4% (tre mesi fa la Commissione europea puntava sullo 0,5%).
E’ incerto se questo 0,6% trimestrale è l’avvio di un ciclo più baldanzoso. “I dati recenti indicano che l’economia della zona euro resta bloccata sulle marce basse”, commenta Johannes Gareis di Natixis. L’indice Bci della Commissione europea che misura valutazioni e umori del business e dei consumatori non si muove da tre mesi.
L’aspettativa è che la crescita nella zona euro resterà modesta, con una domanda esterna in via di indebolimento compensata dagli effetti favorevoli di prezzi dell’energia bassi, da una politica di bilancio leggermente espansiva (il Fondo monetario internazionale la ritiene “modestamente” espansiva mentre alla Commissione danno un’interpretazione più ottimista). In un contesto di politica monetaria che più espansiva non si può. L’economista Jonathan Loynes di Capital Economics ricorda asciutto: “Abbiamo visto tanti barlumi di speranza per non esitare a concludere che la zona euro è sul cammino di una ripresa solida e sostenuta”.
I fattori di freno alla crescita sono stati studiati e indagati in modo approfondito: in una battuta possono riassumersi nelle ‘eredità’ del passato, della crisi. Si chiamano debito pubblico e privati elevati, investimenti deboli, caduta della crescita della produttività, cautela dei consumatori. E poi le banche caricate di sofferenze. Gli spiriti della deflazione sono ancora tra noi. Il tasso annuale di inflazione tornato sotto zero a quota -0,2% ad aprile conferma quanto Draghi aveva annunciato: occorre tempo perché i prezzi riprendano a salire, ci saranno ancora dei mesi a inflazione negativa. Questo è lo scenario che fa dire alla dg del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde: occorre “stare in allerta”. Situazione preferibile all’allarme, tuttavia è un altro modo per dire che la situazione non è più sul filo dell’emergenza, ma deve preoccupare seriamente.
Nei suoi ultimi rapporti il Fmi usa termini che alla Commissione europea non usano mai. Per esempio nell’Outlook di primavera, si dilunga su ciò che dovrebbero fare i governi europei. La prima cosa è rafforzare i fattori che fanno crescere l’economia: è la parte più tradizionale della ricetta, con la rievocazione delle fatidiche riforme strutturali, della liberalizzazione dei mercati e della loro apertura alla concorrenza, del miglioramento del capitale umano (formazione). La seconda cosa ha a che vedere con lo stato di allerta allo stato prima che arrivi all’allarme vero e proprio: i governi devono definire piani di emergenza nel caso in futuro si materializzino i rischi di peggioramento della situazione. A Bruxelles, invece, ci si limita all’ancora timida correzione dell’austerità nelle misure di bilancio, attraverso la flessibilità con il contagocce sulle regole di bilancio e al Piano Juncker da 315 miliardi, una goccia nel mare delle necessità di investimento ridottosi del 15% rispetto all’inizio della crisi (in Italia il crollo degli investimenti è stato ben superiore alla media Ue, -25%, in Portogallo -36%, Spagna -38%, Irlanda -39%, Grecia -64%. Come se il rischio Brexit, la Grecia instabile, la valanga dei migranti e il rallentamento globale fossero eventi normali e facilmente gestibili.
Beninteso, il Piano Juncker sta andando molto bene, il famoso ‘moltiplicatore’ è superiore a quanto atteso: per un euro pubblico se ne attraggono altri 21,5 invece dei 14 previsti. Finora sono stati approvati investimenti per 82 miliardi, ma i finanziamenti effettivamente “firmati” sono 11 miliardi. Che sia insufficiente è opinione comune. Anche alla Commissione, tanto è vero che Juncker vuole che duri fino al 2020. Occorre ben altro. C’è chi scommette sugli eurobond per finanziare progetti comuni a latere del Piano Juncker o per ‘missioni’ comuni (come il finanziamento della gestione della crisi dei migranti, appena proposto dall’Italia). Ma quando si parla di eurobond, di condivisione di risorse e rischi si erge subito il muro tedesco e del ‘Fronte del Nord’ (basti pensare alle forti resistenze a creare un sistema comune di garanzia dei depositi).
Ora sul tavolo dell’Ecofin c’è un nuovo adattamento delle regole del patto di stabilità dal quale possono nascere nuove aperture, nuovi spazi di flessibilità. Sono benvenuti. Arriveranno comunque troppo tardi per fare la differenza quest’anno.