Sfuggire all’influenza politica e normativa della zona euro è uno dei principali cavalli di battaglia del premier britannico David Cameron e del suo governo. Nella guerra guerreggiata fra Londra e Bruxelles si sta passando dalle punture di spillo ad aperte diatribe politico-istituzionali destinate a diventare sempre più aperte e dure. Esempio di ennesima puntura di spillo è il rovesciamento dell’ordine dei lavori delle riunioni informali dei ministri finanziari questo fine settimana. La sequenza classica, prima l’Eurogruppo (a 19) e poi l’Ecofin (a 28 con tutti i banchieri centrali nazionali), è stata rovesciata: si parte nel pomeriggio e si continua domattina con l’Ecofin, domani pomeriggio alle 14,30 l’Eurogruppo. Tutti i 29 ministri, tra cui il britannico George Osborne, sono a Lussemburgo fin dal mattino per la riunione del board della Banca europea degli investimenti. I ministri non euro, dunque avrebbero dovuto fare anticamera, come tante volte è accaduto. Per ‘guerreggiare’ sulle condizioni della permanenza del Regno Unito nella Ue, Osborne approfitta di ogni riunione europea: alla vigilia delle riunioni di Lussemburgo ha chiesto esplicitamente modifiche al Trattato per difendere gli interessi della City.
Il Cancelliere dello Scacchiere ha spiegato chiaramente che per Londra regolare le relazioni tra gli Stati euro e gli Stati non euro è “forse il singolo tema più importante“ da risolvere nei negoziati con gli altri governi. Obiettivo: arrivare a una soluzione concertata del ‘caso britannico’ senza rischiare un voto contrario alla permanenza nell’Unione europea al referendum nel 2011.
Osborne si è riferito ai vari “tentativi” europei di mettere in discussione il primato degli interessi finanziari britannici: nel 2011, per esempio, la Bce decise che le ‘clearing houses’ specializzate nella gestione delle transazioni in euro dovessero avere sede in un paese dell’unione monetaria per assicurarne l’adeguata supervisione; poi la centralizzazione della vigilanza degli istituti finanziari e l’unione bancaria; poi ancora la ‘cooperazione rafforzata’ tra undici paesi per una tassa sulle transazioni finanziarie; infine – durante l’estate – l’uso del Fondo Ue per la stabilità finanziaria per il prestito-ponte alla Grecia di 7 miliardi: trattandosi di un fondo dell’Unione, i paesi euro hanno dovuto concordare un sistema di tutele finanziarie dei paesi non euro per fronteggiare eventuali perdite.
Va notato però che in questi casi, come d’altra parte avviene su tutte le politiche europee, Londra ha ottenuto ampi margini di manovra e chiare garanzie. Basti pensare al caso delle casse di compensazione per la regolazione delle transazioni in strumenti finanziari denominati in euro: la Bce aveva imposto un divieto che poi è stato bocciato dalla Corte di giustizia Ue. Dopodiché Bce e Bank of England hanno trovato un accordo che permette alle ‘clearing houses’ britanniche di non trasferirsi nel continente in cambio di uno scambio di informazioni fra la City e Francoforte.
“L’asserzione britannica per cui gli interessi di Londra sono sacrificati sull’altare delle regole del mercato unico europeo e messi in pericolo dalla crescente integrazione della zona euro e della vigilanza Bce semplicemente non risponde alla realtà, di più è speciosa – indica un alto funzionario Ue -. Londra è sempre riuscita a contrattare ottime scappatoie anche se adesso parla di crescente discriminazione dell’Eurozona nei suoi confronti”.
C’è però un’altra dimensione del caso britannico: “È inevitabile che l’intera Unione europea risenta della forza di attrazione dell’Eurozona, nonostante che questa abbia enormi problemi politico-istituzionali aperti, non abbia le caratteristiche del ‘sovrano’: l’intera costruzione dell’unione bancaria e a termine a mutualizzazione delle risorse nazionali per il fondo europeo di risoluzione (gestione ordinata dei fallimenti bancari – ndr) spingono in quella direzione”, aggiunge l’alto funzionario.
La strada della modifica del Trattato viene considerata dai più non percorribile: già difficile far passare le ratifiche in tempi normali, ancora di più con le elezioni in Germania e Francia nel 2017. Dalla cabina di regia sui negoziati con la Ue a Downing Street si fa sapere che Cameron vorrebbe strappare ai partners l’impegno vincolante su un calendario per cambiare il Trattato.
Un punto fondamentale è il sistema di voto per garantire ancora di più il fronte non euro: il ‘think tank’ Open Europe ha proposto che se tre Stati non euro si pronunciano contro una proposta, il Consiglio deve cercare il consenso. Una soluzione che, però, gli Stati euro non possono accettare visto che regalerebbe a Londra un diritto di veto.
Il presidente della Commissione Juncker continua a dar prova di ottimismo nelle dichiarazioni pubbliche, indicando di essere certo che si raggiungerà “un accordo giusto” con il Regno Unito. Un gruppo di lavoro molto agguerrito è stato messo in piedi in questi giorni sotto la guida di uno dei migliori alti funzionari comunitari: si tratta di Jonathan Fall (che oltre a essere stato direttore generale del mercato interno è stato anche portavoce della Commissione con Romano Prodi presidente). Ottima e indiscussa preparazione, sicuro profilo internazionale. È, guarda caso, britannico.
Intanto a Londra si arroventano i toni. La Corte di giustizia Ue ha stabilito che il tempo dei trasferimenti di chi si occupa di vendite e rapporto con i clienti deve essere considerato a tutti gli effetti tempo di lavoro, nel caso in cui i lavoratori non abbiano un ufficio (è quello che i sociologi cominciano a chiamare ‘lavoro liquido’). Immediati commenti da Londra: è l’ennesima dimostrazione che l’Europa “tormenta il business”. La revisione della direttiva sul tempo di lavoro (limite di 48 ore la settimana) è uno dei chiodi fissi di Cameron. La Commissione ha lanciato discretamente una consultazione per verificarne il funzionamento, ma è difficile che la Ue apra la strada a una effettiva liberalizzazione, dato che viene considerato un pilastro della politica sociale europea.
Nelle file di Cameron c’è comunque molto nervosismo: il premier ha appena chiesto ai rappresentanti del business britannico di evitare dichiarazioni a favore della permanenza nella Ue. Motivo: non indebolire la posizione del govreno nel corso del negoziato con i partners. Silenzio, dunque, sui rischi di una Brexit, che il grande business continua a temere. Non è un bello spettacolo per i sostenitori della ‘società aperta’.