"Questa Commissione lavorerà in partnership con gli stati membri e il Parlamento europeo, guiderà non sarà guidata, deciderà non dibatterà soltanto, agirà non chiederà soltanto". È andato giù duro Josè Barroso presentando il nuovo esecutivo europeo che sarà operativa da febbraio, incidenti europarlamentari esclusi. Se così sarà lo vedremo molto presto. Nei prossimi mesi ci sono scadenze importanti: il negoziato globale sul clima (non si esaurirà a Copenhagen), le exit strategy degli stati dalle banche e la ristrutturazione del sistema finanziario, la riduzione dei deficit pubblici, condizioni e tempi della ripresa dell'economia, la ristrutturazione dell'industria europea della quale il caso Opel è solo la punta dell'iceberg (basti pensare alla sovracapacità produttiva nei settori manifatturieri chiave e alla conversione ecologica della produzione auto, cose cui dovrà ora dedicarsi il commissario Tajani).
È tipico di Barroso ipotizzare scenari di grande respiro per poi perdere il passo nel giorno per giorno: infatti, il limite della sua prima Commissione è stato proprio quello di aver indebolito, e qualche volta annullato, il ruolo di spinta dell'esecutivo. È un ruolo che, invece, dovrebbe essere mantenuto al massimo della pressione dato che la Commissione è la sola istituzione comunitaria a disporre del monopolio di iniziativa legislativa. Barroso ha sempre argomentato che in politica premia il realismo: si può presentare una proposta di direttiva sapendo che sarà sotterrata dai governi? In realtà ciò ha indebolito la sua leadership europea, si è trattato di un errore i cui effetti si sono sentiti nelle difficoltà iniziali a reagire alla crisi finanziaria. Detto questo, le scelte sulle funzioni dei commissari europei appaiono superiori alle aspettative. Barroso ha cercato di smarcarsi un pò dal trio forte della Ue formato da Francia, Germania e Regno Unito, tanto forte da essere riuscito a imporre la debole coppia Van Rompuy-Ashton ai vertici dell'Unione (come presidente e 'ministrà degli esteri). Uno smarcamento a metà. È un dato di fatto che il francese Barnier al mercato interno è controbilanciato da un direttore generale britannico, che si presume più incline a difendere il ruolo (e gli interessi strategici) della City londinese anche se si tratta di un apprezzato funzionario comunitario. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Londra e i probabili nuovi entranti a Downing Street (i conservatori al posto dei laburisti nel 2010) potranno stare tranquilli. Non è detto che Barroso e i governi siano consapevoli dei rischi di una tale operazione: l'applicazione esplicita di un 'manuale Cencellì comunitario può portare facilmente a incomprensioni e paralisi, un commissario che appare quasi 'sotto controllo' non è il massimo. Forse non a caso Barroso continua a ripetere di essere lui stesso il garante di tutte le decisioni ed è chiaro che nei prossimi cinque anni tutti i dossier caldi saranno sotto la sua stretta sorveglianza. Più dei cinque anni precedenti.
È anche un dato di fatto, però, che tutti gli altri posti chiave (nell'economia) sono in mani fidate, di persone che hanno già una visione 'europeà della loro funzione e lo hanno pure dimostrato: la concorrenza al socialista spagnolo Almunia, gli affari economici al liberale finlandese Rehn, un altro liberale, il belga De Gucht, al commercio, l'ex 'lady di ferrò della concorrenza Kroes alle telecomunicazioni. Dei quattro il meno conosciuto è De Gucht, appena arrivato a Palazzo Berlaymont, gli altri si sono guadagnati i galloni 'comunitarì da tempo. Quanto ai portafogli si tratta di settori nei quali gli interessi nazionali sono fortissimi, sui quali gli attacchi a Bruxelles (non solo da parte del 'trio’) sono sempre stati ferocissimi. E presumibilmente ce ne saranno ancora .