Per quanto il governo tedesco abbia varato una finanziaria che porterà il deficit pubblico a quota 100 miliardi di euro e ne preveda una riduzione a colpi di dieci miliardi all’anno a partire dal 2011 senza tuttavia precisare in che modo, sta lavorando per rafforzare la sorveglianza sulle strategie di bilancio nell’Eurozona in modo da renderla più vincolante. Il paradosso è solo apparente dal momento che la Germania dispone di margini di manovra superiori a qualsiasi altro paese europeo. Ma c’è un altro paradosso, questa volta evidente: di solito la Germania è molto restia a condividere con i partner scelte fondamentali della politica economica come si è visto all’epoca della prima risposta alla recessione incombente e prima ancora quando nel 2007 aumentò di tre punti l’Iva. E continua a esserlo. Tale riluttanza però non riguarda la gestione dei conti pubblici: una volta fuori controllo in un paese, possono produrre effetti devastanti sulla credibilità dell’intera unione monetaria. È la crisi greca ad aver reso clamoroso il limite del patto di stabilità, l’insieme delle regole di vigilanza sui bilanci, per il modo in cui è stato usato finora. In sostanza è stato usato correttamente solo quando i buoi erano già scappati, in altre parole solo quando il fatidico tetto del 3% era abbondantemente superato.
Dato che quest’anno tutti i paesi Eurozona eccetto due (Lussemburgo e Finlandia) hanno un deficit pubblico sopra il 3%, nel 2010 tutti con tre paesi a due cifre (Irlanda, Spagna e Grecia), oggi le regole del patto servono ovviamente solo a orientare il consolidamento. Ma si tratta di un orientamento debole: tutti i governi hanno dichiarato e ridichiarato che avrebbero definito “immediatamente” le misure per ridurre deficit ma, a parte Irlanda, Grecia e Spagna che hanno già cominciato il loro calvario e perlomeno la Grecia dovrà addirittura renderlo ancora più doloroso, di ‘exit strategy’ non c’è neppure l’ombra. Ci sono solo gli impegni in cifra e di calendario: rientro sotto il 3% fra il 2012 e il 2013. La richiesta di definire i piani di consolidamento per chiarire alle opinioni pubbliche e ai mercati che i governi fanno sul serio e saranno in grado di ripagare i debiti (impegno importantissimo con la valanga di emissioni di titoli già all’inizio del 2010) avanzata da tutti, ministri, banchieri centrali, capi di stato e di governo europei, è rimasta la classica perorazione senza risultati.
La crisi greca ha fatto saltare questo schema. A Berlino si ritiene che ci sono “rischi considerevoli” per la stabilità dell’euro. Anche per la credibilità dell’unione monetaria visto che la Grecia ha truffato i partner inviando a Bruxelles statistiche chiaramente truccate. All’ultimo vertice europeo a Bruxelles ha fatto molta impressione il premier greco Georges Papandreu: nessuno prima di lui ha avuto mai il coraggio di mettere in piazza i panni sporchi del proprio paese come ha fatto lui. Ma ha fatto anche molta impressione, raccontano fonti qualificate, lo strappo chiesto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel sull’Eurogruppo. Non basta più il coordinamento delle politiche di bilancio a bassa intensità, quando è in gioco la stabilità dell’area monetaria non si può più scherzare, non potrà esserci un secondo caso greco altrimenti l’Eurozona rischierebbe davvero grosso. Bisogna alzare il tiro, agire preventivamente e non solo ex post, cioè quando il deficit ha preso le ali. Sotto accusa non è la recessione, naturalmente, è la tendenza piuttosto generalizzata a non assicurarsi margini di manovra per il futuro quando l’economia va bene. Questa indicazione è rivolta innanzitutto ai paesi con alto debito (Italia compresa) o a maggior ragione a paesi che hanno modellato la loro crescita sulle bolle immobiliari e finanziarie (Irlanda e Spagna) o sui trucchi contabili (Grecia).
Il discorso tedesco è solo apparentemente in sintonia con la posizione francese. Christine Lagarde ha più volte chiesto vanamente un programma di lavoro specifico sulla ‘governancè dell’Eurozona e a quanto risulta nella riunione dell’Eurogruppo del 18 gennaio Jean Claude Juncker presenterà finalmente delle idee piuttosto precise a tale riguardo. Mentre la Francia insegue l’idea di un governo economico nel senso più lato, almeno come slogan, la Germania vuole prevenire i danni di politiche di bilancio scellerate di qualche partner che possono avere dure conseguenze sulla politica monetaria comune e magari rendere inevitabile un salvataggio finanziario di un intero paese (eventualità che per la Grecia al momento viene esclusa), piuttosto che ipotizzare nuove forme strutturate di coordinamento delle politiche economiche e inevitabilmente fiscali (materia sulla quale la sovranità nazionale resta assoluta). Ciò dovrebbe implicare almeno che i ministri dell’Eurogruppo si confrontino prima a Bruxelles sulle scelte fondamentali di bilancio (nel merito non solo limitatamente alle cifre macroeconomiche) ancor prima di definirle a casa propria per verificarne gli effetti sull’intera Eurozona. Il problema è che in Europa e anche in Germania non c’è un contesto politico che renda possibile salti di questa natura. L’estate scorsa la corte costituzionale di Karlsruhe ha imposto che d’ora in poi non possono essere accettate decisioni europee a maggioranza senza consultare i parlamenti tedeschi nel caso in cui le leggi Ue tocchino la vita quotidiani dei tedeschi.
Qualche giorno fa in una lunga e interessante intervista a El Pais, Jacques Delors ha cosi’ sintetizzato il carattere dell’attuale malattia politica europea, la riluttanza: i governi non hanno voluto equilibrare la politica monetaria e la politica economica dimenticando che “senza cooperazione non c’è integrazione”; tuttora prevale la logica che vede “la Germania governare a Berlino, la Francia convertita alla Grande Francia, il Regno Unito ogni volta più antieuropeista”. In questo quadro, conclude Delors, l’Europa può proteggere, ma “non esercita stimoli né per l’innovazione né per la crescita né per la creazione di posti di lavoro”. Ci sono tanti pompieri e funzionano, non ci sono architetti.