La discussione è appena cominciata, ma una cosa è certa: la creazione di un Fondo monetario europeo, cioè di uno strumento che abbia funzioni analoghe a quelle svolte dal Fondo monetario internazionale su scala globale con simili poteri di interventi in paesi in difficoltà finanziarie e a rischio di fallimento, è all’ordine del giorno della politica europea. E lo è per volontà tedesca e francese. La Commissione, che appare scavalcata dall’accelerazione imposta da Germania e Francia, ne discute apertamente nella riunione convocata a Strasburgo. Poi sarà la volta dei ministri dell’Eurogruppo. La crisi greca ha cambiato radicalmente il contesto in cui agiscono i governi che dovranno con ogni probabilità sostenere Atene nelle emissioni valanga di titoli pubblici in aprile e maggio. “Per la stabilità dell’Eurozona, abbiamo bisogno di una istituzione che disponga dell’esperienza del Fondo monetario internazionale e di analoghi poteri di intervento”: è stata questa l’indicazione del ministro delle finanze tedesche Wolfgang Schaueble. Confortata dal via libera alla discussione della cancelliera Angela Merkel. Il vento è cambiato e lo dimostra la reazione della Bce al secco no pronunciato dal membro del board Juergen Stark: il suo articolo pubblicato da Handelsblatt rappresenta una opinione personale.
Ciò non significa che la Germania si è convertita ai salvataggi facili e garantiti. Significa semplicemente che con tutte le cautele del caso per non sacrificare la propria sovranità nazionale in materia fiscale e nelle politiche economiche (gelosamente difesa dalla Corte costituzionale di Karlsruhe), la Germania si è convinta che l’unione monetaria non regge senza un maggiore coordinamento delle politiche economiche e senza uno strumento di gestione delle crisi. Che dovrà poggiare su principi rigorosi: ricette fiscali ed economiche dure, intrusione diretta nelle scelte nazionali come contropartita degli esborsi finanziari peraltro accuratamente centellinati. In una parola, quei principi sui quali si muove, appunto, il Fondo monetario internazionale.
Del dettaglio si sa poco o nulla: il Fondo del quale sarebbero azionisti i paesi dell’Eurozona agirebbe in stretto collegamento con l’Eurogruppo (“E’ necessaria un simbiosi tra i due organismi”, indica un diplomatico europeo), si prevedono sanzioni nel caso in cui il paese assistito non rispettasse gli impegni assunti (dalla soppressione delle sovvenzioni Ue fino alla sospensione dei diritti di voto nel Consiglio). Soprattutto non è chiaro qual è il meccanismo di intervento e da dove arriverebbero le risorse: tra le opzioni che circolano l’apporto di fondi da parte degli stati aderenti per concedere prestiti, fornire garanzie alle emissioni di bond pubblici.
Qualche settimana fa è stato il think tank di Bruxelles Center for European Policy Studies a lanciare una proposta articolata (firmata da due economisti Daniel Gros, direttore Ceps, e Thomas Meyer). L’idea è far finanziare il Fme dai paesi che hanno un deficit oltre il 3% e un debito oltre il 60% del pil (per la Grecia nel 2009 sarebbe stato in totale di una quota pari allo 0,65% del pil nazionale); il Fondo avrebbe capacità di chiedere denaro al mercato. Forma di intervento preferibile la fornitura di garanzie per specifiche emissioni di debito sovrano. Chi ne ha bisogno può contare su un ammontare pari a quanto depositato presso il Fondo (interessi inclusi) a patto che il programma di aggiustamento sia approvato dall’Eurogruppo. Ulteriori garanzie potranno essere concesse solo se concorda un programma di aggiustamento sotto stretta supervisione di Commissione ed Eurogruppo. Se non rispetta gli impegni niente nuove garanzie, taglio dei fondi Ue, esclusione dei titoli pubblici dal collaterale per le operazioni pronti contro termine della Bce.
Il vantaggio del Fme rispetto a qualsiasi intervento mirato (come quello di cui si parla oggi per la Grecia relativo al sostegno delle emissioni di bond) è che può gestire il rischio ‘default’ dell’intera Eurozona: il Fme può offrire ai detentori di titoli del paese a rischio ‘default’ uno scambio: acquisto dei titoli del debito sovrano con un congruo sconto contro titoli Fme.
Negli ultimi giorni, poi, si sono pronunciati a favore di soluzioni europee per gestire le crisi altri governi. Giulio Tremonti ha evocato di nuovo lo strumento dell’eurobond, ha ipotizzato “qualcosa di simile” al fondo europeo di salvataggio per le banche, idea nata nell’autunno 2008 appoggiata dall’Italia e poi scartata, o un non meglio precisato intervento del Fondo monetario internazionale “come banca”. Il premier belga Yves Leterme ha parlato di un’Agenzia europea in grado di emettere debito pubblico, idea che avrebbe il consenso del lussemburghese Jean Claude Juncker. La Commissione europea ha accelerato la preparazione di una proposta per rafforzare il coordinamento e la sorveglianza delle politiche di bilancio ed economiche nell’Eurozona applicando l’articolo 136 del Trattato. L’impegno è vararla entro fine giugno e al momento non si sa se comprenderà anche l’idea del Fondo monetario europeo oppure no.
Se nascerà, il Fme è destinato a modificare non poco gli equilibri delle istituzioni finanziarie internazionali e non è detto che il Fme avrà vita facile. Dopo la grande crisi asiatica di fine anni ’90, il Giappone propose la costituzione di un Fondo monetario asiatico e gli Usa fecero di tutto per farlo naufragare nella culla opponendosi a qualsiasi mossa all’insegna di un “asianismo” che li escludesse. Riuscendoci. Successivamente quell’idea si è via via modificata: i tredici paesi dell’Est e del Sud-est asiatico (Giappone, Cina, Corea del Sud e i dieci membri dell’Asean) hanno concordato di creare un fondo di emergenza di 120 miliardi di dollari da usare in caso di necessità. Si tratta di un intreccio di accordi bilaterali di ‘currency swap’, una linea di credito di urgenza alimentato principalmente da Cina, Giappone e Corea del Sud. Di fronte un’Eurozona convinta e unita difficilmente, però, gli Usa potrebbero bloccare una iniziativa del genere. Il problema è che ‘nemici’ potenziali ci sono anche in Europa. I britannici, innanzitutto, il cui ruolo risulterebbe marginalizzato non facendo parte dell’unione monetaria.