La predisposizione di misure anti-crisi a suon di emissioni obbligazionarie garantite dagli stati Eurozona (con la costituzione della ‘società veicolo’ European Financial Stability Facility di cui sono azionisti tutti i membri dell’unione monetaria) e il pronto intervento del Fondo monetario internazionale è un fatto storico perché per la prima volta viene praticata la solidarietà finanziaria tra gli aderenti all’unione monetaria sotto un’insegna comunitaria, anche se garanzie e prestiti saranno assicurati dai singoli paesi. Per quanto nessuno lo dica apertamente per timore di fornire argomenti a qualche ricorso legale, specie in Germania, le cose stanno così. Sembra il migliore dei mondi possibili: gli strumenti per intervenire in caso di altre crisi di finanziamento di stati ci sono, basta che l’Eurogruppo giudichi all’unanimità che esiste il rischio di instabilità finanziaria sistemica o dell’euro e scattano gli aiuti, lo stato sotto attacco si ritira dal mercato e finanzia il proprio debito pubblico con i prestiti (a tassi inferiori a quelli di mercato ma ben lontani dall’essere gratuiti) in attesa di tempi migliori. Peccato che nel momento di massima soddisfazione, così faticosamente realizzata, si siano aperte subito due falle. La prima è interna all’Eurozona, la seconda fuori.
Cominciamo da quella interna che riguarda la Germania: Berlino ha presentato subito il conto annunciando una manovra economica da 80 miliardi di euro fino al 2014, di cui oltre 11 miliardi l’anno prossimo, proprio quanto la ripresa economica dovrebbe consolidarsi. Per il resto d’Europa è una doccia gelata perché se c’era un paese con margini (rispetto alle condizioni del bilancio e rispetto alla credibilità politico-amministrativa) per prendersela un tantino più comoda, per rafforzare la domanda interna dell’intera area monetaria, questo è proprio la Germania. Se c’era una possibilità per evitare il rischio di una fase di ripresa stentata ancora più lunga di quanto previsto, nell’Eurozona è stata persa. La stretta vigilanza sui bilanci pubblici, che giustamente la Germania chiede e otterrà nel giro di qualche mese, è infatti solo un lato della medaglia: se non c’è una linea di politica economica condivisa a livello dell’Eurozona che la sostiene, non si faranno molti progressi. La novità è che mentre negli anni di preparazione della moneta unica la Francia ha inseguito la Germania nella politica di disinflazione competitiva, oggi non sembra disposta a fare altrettanto. E non solo a Parigi si pensa che la mossa tedesca da ‘prima della classe’ rappresenti la conferma della strategia economica “non cooperativa” praticata fin dagli anni ’90, strategia fondata sulla compressione dei salari per guadagnare quote di mercato a detrimento di altri paesi europei e sul rifiuto della solidarietà con i paesi Eurozona in difficoltà. Questo secondo tabù è stato smosso, e abbiamo visto con quanta fatica e con quali lungaggini, solo perché è scattata l’emergenza da ultima spiaggia per l’euro. Ma guai a pensare che gli strumenti di solidarietà possano essere strutturati in modo che siano permanenti. Se si vuole trovare una ragione di fondo delle tensioni fra Germania e Francia sul ‘governo economico’ bisogna partire di qui (in ogni caso si ratta di tensioni che non manderanno in soffitta il famoso ‘asse’ europeo).
La seconda falla riguarda le relazioni tra Eurozona e Unione europea, tra i paesi che stanno dentro il recinto della moneta unica e quelli che stanno fuori. Il malumore non è di oggi, ma è stato il premier polacco Donald Tusk a gettarlo sul tavolo con chiarezza: “Non è accettabile che si creino istituzioni separate, il Trattato di Lisbona è abbastanza preciso”. Il riferimento è al decollo dell’Eurogruppo nel formato politico più alto, cioè a livello di capi di stato e di governo, accarezzato dalla Francia. La Polonia parla per sé stessa, ma lo stesso malumore è ormai chiaramente percepibile in altri paesi, Regno Unito in primo luogo. Il no di Londra all’idea di esaminare a Bruxelles le linee generali dei programmi di bilancio prima che siano approvate dai parlamenti nazionali la dice lunga sull’orientamento del nuovo governo britannico. Che l’agenda politica economica europea sarebbe stata ritmata dalle scelte dell’Eurozona era pacifico dieci anni fa. Oggi è una realtà: quante volte ai ministri finanziari che non fanno parte dell’Eurogruppo tocca discutere scelte già confezionate dai colleghi della moneta unica. La crisi finanziaria ed economia, però, hanno sottoposto l’intera costruzione europea a uno stress notevole che inevitabilmente porterà a equilibri più avanzati di integrazione: vigilanza di banche, assicurazioni e borse, vigilanza macro-prudenziale, politiche economiche strutturali e non solo controllo sui bilanci pubblici. Non sappiamo ancora quale sarà l’intensità di tale integrazione, ma sappiamo che il confronto appena cominciato non sarà in discesa.