E’ pura teoria l’idea che se il risultato degli stress test bancari dovesse far emergere delle grandi falle nel patrimonio di alcune banche europee, uno stato potrebbe ricorrere abbastanza facilmente al Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria appena costituito e tra pochi giorni operativo. L’ipotesi era stata lanciata con una massiccia dose di imprudenza dal commissario agli affari economici Olli Rehn in una audizione all’Europarlamento dieci giorni fa. Via via se n’era poi parlato in termini sempre più sfumati. Ancora recentemente è stato il direttore esecutivo del Fondo, che in gergo si chiama Efsf (acronimo di European Financial Stability Facility), a spiegare che solo gli stati sono abilitati a chiedere l’intervento della ‘facility’ e che un paese al massimo può utilizzare un parte dei fondi prestati dai governi Eurozona (raccolti attraverso emissioni specifiche di obbligazioni) e dal Fondo monetario per ricapitalizzare una banca. E’ stato questo il caso della Grecia, che ha deciso di utilizzare 10 dei 110 miliardi di prestiti concordati per sostenere le banche nazionali. E’ stato così, in parte, anche per la Lettonia, che un anno e mezzo fa chiese un prestito di 7,5 miliardi di euro (fu coinvolto anche il Fondo monetario) dopo che il governo nazionalizzò la Perex, prima banca del paese. L’alternativa sarebbe stato il fallimento con i lettoni che ritirarono dagli sportelli 341 milioni di euro in un mese e mezzo.
Bene, ma perché un tale meccanismo si metta in moto lo stato in questione deve trovarsi praticamente sull’orlo del rischio bancarotta (come è accaduto alla Grecia), scenario che nessuno propone oggi come credibile per altri paesi. Di conseguenza l’idea si è presto sgonfiata. Se le cose stanno così, perché se n’è parlato come terza linea di difesa in caso di emersione di buchi neri nei bilanci delle banche dopo la ricerca di capitali direttamente sul mercato e dopo l’intervento dello stato come è accaduto negli ultimi due anni? Perché ad un certo punto ai vertici delle istituzioni europee si è pensato che questa avrebbe potuto essere una risorsa “in ultima istanza”, sapendo che la ‘facility’ messa in piedi dai governi dell’Eurozona (750 miliardi in totale costituiti da 60 miliardi del bilancio Ue, 440 miliardi da emissioni obbligazionarie dei governi e altri 250 miliardi del Fmi) è stata concepita per ricapitalizzare gli stati non le banche o le imprese industriali?
La risposta è semplice: due settimane fa, la preoccupazione per i risultati degli stress test bancari, i cui risultati saranno noti il 23 luglio, era al massimo grado. Tra gli addetti ai lavori (Commissione, i vari comitati e sottocomitati cui partecipano ministeri del Tesoro, banche centrali e regolatori) circolava un’aria da crisi generale mentre sui mercati circolavano le conclusioni elaborate sulla base di stress test ‘privati’ da parte di grandi banche commerciali e d’affari. Per Credit Suisse, per esempio, sulla base di uno scenario economico di recessione severa in Europa, sarebbe necessaria una iniezione di capitale pari a 90 miliardi euro di cui solo 5 miliardi per società quotate in Borsa ma 37 miliardi per le Landesbanken tedesche e 12 miliardi per le casse spagnole.
Altro motivo di tensione, l’incertezza sulle modalità di pubblicazione dei risultati degli stress test di fronte alla resistenza (fino ad un certo punto anche tedesca) a far emergere gli effetti sui bilanci delle banche del rischio sovrano. L’enfasi sulla “terza ciambella di salvataggio” è probabilmente servita a rassicurare che nessun paese sarà lasciato solo a gestire una crisi che potrebbe rivelarsi più drammatica ed estesa di quanto appare (o si voglia ammettere) oggi. Solo dopo che è stato raggiunto un accordo sulla piena trasparenza dell’informazione sui risultati degli stress test è scattata l’operazione contraria, con governi e Fondo monetario che hanno cominciato ad accreditare l’aspettativa che non ci saranno problemi per le grandi banche e semmai potrebbero emergere esigenze di capitalizzazioni in qualche piccolo istituto. Naturalmente, una crisi in una banca di dimensione regionale (come appunto le casse tedesche o quelle spagnole) può far scattare un effetto sistemico rilevante perché mette in luce una debolezza strutturale del settore e può scatenare panico tra i depositati di altre banche, ma si tratterebbe pur sempre di una emergenza gestibile. Il presidente dell’Eurogruppo Juncker si dichiara convinto che non ci saranno “grandi catastrofi” (non si escluderebbe ‘piccole catastrofi’?). L’Irlanda fa sapere che le due banche principali, Allied Irish Bank e Bank of Ireland hanno già passato uno stress test nazionale più severo di quello previsto in questi giorni dal Comitato dei regolatore bancari europei e che già si stanno preparando al trasferimento degli asset tossici alla ‘bad bank’.
Se vengono escluse brutte sorprese per le 26 grandi banche di taglia sistemica (con una proiezione paneuropea), dunque, non ha senso parlare di un intervento del Fondo di stabilizzazione Ue che di fatto è uno strumento per evitare la bancarotta di uno stato non di una singola istituzione finanziaria.