La vera prova dopo il voto è realizzare sul serio l'”autonomia strategica”

 Sebbene le indicazioni dei tanti sondaggi sul voto Ue siano generalmente convergenti, occorre sempre prudenza a trarre conclusioni affrettate. In ogni caso, non dovrebbero esserci i numeri per un rovesciamento degli schieramenti politici necessari a dare il calcio d’avvio della nuova legislatura in Parlamento, con il voto su chi guiderà la Commissione europea. Una figura che sarà designata dal Consiglio europeo, cioè dai 27 capi di stato e di governo, forse già il 17 giugno o al massimo entro fine mese. Dovrebbero aumentare i voti e i seggi Ecr (partito presieduto da Giorgia Meloni) e Id (di cui fa parte la Lega), tuttavia non in misura tale da scombinare le carte in modo decisivo. Ppe, S&D e Re (liberali) sulla carta potrebbero avere una trentina di voti più della maggioranza necessaria. Certo ci sarebbero cento e passa eurodeputati non iscritti ad alcun gruppo e non associati (all’inizio della legislatura), serbatoio di sorprese, dall’orientamento e dal comportamento di voto tutto da verificare.

Mentre la designazione di von der Leyen da parte dei capi di stato e di governo per un secondo maappare probabile, in Parlamento l’ex ministra tedesca troverebbe difficoltà. Lì i giochi sono più mossi, le defezioni dalla linea del gruppo di appartenenza dietro l’angolo. Interesse di partito e interesse nazionale si declinano in modo diverso nelle due istituzioni: si intrecciano, interagiscono, ma non costituiscono due facce esatte della stessa medaglia. Né, per sua natura, la maggioranza parlamentare che sosterrà chi guiderà la Commissione deve considerarsi permanente: nel Parlamento europeo le maggioranze si determinano di volta in volta sui singoli temi a seconda degli interessi in gioco. E ciò accade anche in Consiglio.

È chiaro però che il timbro del calcio di inizio è importante perché riflette il momento politico, lo “spirito del tempo” nella Ue condensato nel risultato elettorale e frutto nello stesso tempo del compromesso politico tra i governi attuali dei Paesi dell’Unione. Governi che sono in carica da prima del voto Ue e che per lo più resteranno in carica anche a lungo dopo. Una domanda che ci si pone è se sarà rotta o meno la tradizione che vede Ppe, S&D e liberali spartirsi le cariche delle istituzioni Ue visto che l’Ecr potrebbe sopravanzare i liberali in termini di seggi e che Ecr+Id potrebbero avere gli stessi seggi di S&D. È un’ipotesi astratta perché tra i “27” non ci sono i numeri, vista la netta prevalenza di responsabili di governo di Ppe, liberali e S&D.

In attesa del responso delle urne e delle prime mosse successive, non resta che allungare lo sguardo al dopo e fornire qualche indicazione sulle cose alle quali occorre stare attenti per vedere dove andrà l’Europa nei prossimi cinque anni.

In poche parole, la questione di fondo alla quale si intrecciano le principali questioni politiche ed economiche europee riguarda il modo in cui sarà declinata, messa in pratica, l’aspirazione all’”autonomia strategica”. Concetto roboante, spesso troppo indeterminato, interpretato peraltro in opposte visioni. Richiama almeno quattro grandi temi cui quali la Ue non riesce a fare la differenza e invece dovrebbe farla a beneficio di tutti, in parte ha fallito lo scopo. Il primo ha a che fare con la guerra in Ucraina e la difesa/sicurezza dell’Unione: passi avanti nella difesa comune, dalla produzione di strumenti (armi) a una stretta cooperazione nelle scelte e nella cooperazione militari saranno decisivi per la stabilità continentale. Per quanto importante sia, e lo è effettivamente, il lato economico-finanziario, senza una politica estera comune in grado di far pesare la Ue nella definizione di un nuovo sistema globale di sicurezza collettiva e di cooperazione, gli appalti comuni per acquistare e produrre armamenti difensivi non risolveranno granché. La stabilità geopolitica è un elemento centrale per la crescita economica, i flussi commerciali, l’andamento dei prezzi. Non a caso l’instabilità geopolitica è il fattore centrale di incertezza sulle prospettive dell’attività su scala globale.

 Il secondo tema è il Green Deal: la Commissione in scadenza raccomanda una riduzione netta delle emissioni di gas a effetto serra del 90% entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990, ma sarà la nuova a proporre la legislazione. Si tratta di uno dei primi atti rilevanti della nuova «amministrazione» europea. Poi la verifica nel 2026 dell’obiettivo stop ai nuovi veicoli a diesel e benzina dal 2035: questo “target” è sempre più messo in discussione in diversi paesi (Italia compresa), tuttavia gli stessi produttori auto, sebbene alcuni siano solleticati dall’eventualità di una proroga, sono molto cauti sulla prospettiva di riportare indietro l’orologio dell’elettrificazione. Come recentemente ha indicato l’Acea, che rappresenta a Bruxelles i produttori europei, “siamo ben oltre la fase in cui si discute del se mentre la massima enfasi dovrebbe essere posta sul come” procedere nella corsa all’elettrico. Si tratta di vedere se e in quale misura si intensificherà la frenata sul Green Deal, nei settori dell’industria come dell’agricoltura, cominciata da molti mesi, mesi che hanno visto la presidente von der Leyen prontissima a soddisfare le pressioni in tal senso di molti governi. Il vero rischio di impantanare parti rilevanti del Green Deal è perdere posizioni nella scala tecnologica globale.

Terzo tema: alla difesa/sicurezza e al Green Deal è strettamente collegata la questione degli investimenti e dell’applicazione delle nuove regole di bilancio. Come la questione più generale della capacità della Ue di fornire una base comune di risorse per affiancare al bilancio europeo nuove risorse, compresa l’emissione di nuovo debito comune, terreno politicamente sensibile sul quale si misurano più le divisioni che i consensi. Avere una capacità di bilancio comune più forte (attualmente il bilancio Ue vale circa l’1% del pil dell’Unione) può far la differenza. Ma la condivisione di debito comune implica vincoli precisi sulla capacità di spesa degli stati che ne beneficiano (come accade con i Pnrr) e qui si scoprono le carte: la sovranità piena sulla spesa nazionale può essere agitata solo in campagna elettorale.

Qualcosa si muove se la premier danese Mette Frederiksen, socialdemocratica alla guida di un governo di coalizione socialdemocratici/liberali di varia estrazione, dichiara che il quartetto dei “frugali” non esiste più dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. La Danimarca è dunque a favore dell’emissione di debito comune per finanziare le spese per la difesa a livello europeo ed e’ sulla scia della premier estone Kaja Kallas, d’accordo a sua volta con il presidente francese Macron sulla necessità di una emissione comune di eurobond per cento miliardi di euro, a tale scopo. Kallas è liberale e guida un governo con socialdemocratici e cristiano-democratici. Sotto Covid, Danimarca e Finlandia furono i paesi che con Olanda e Austria fecero di tutto per smorzare, correggere, perimetrare, limitare l’operazione Next Generation EU (i Pnrr, appunto). I paesi del “fronte nord-orientale”, dalla Finlandia ai Baltici alla Polonia stanno finanziando muri di droni e fortificazioni e la loro sicurezza è anche la sicurezza degli altri. Ecco perché cambiano le vecchie posizioni sulla spesa comune. Sono su questa linea Italia e paesi del Sud. Inevitabile che NGEU non resti l’ultimo caso di debito comune. Anche su questo, più sono i progetti comuni e più lo sforzo è condiviso a livello Ue, più le scelte nazionali sono plasmate a livello europeo e più ci sarà sorveglianza comune. Legittimamente. Non si può avere i primi senza la seconda.

Il quarto tema è l’integrazione del mercato dei capitali. Nelle ultime settimane c’è stata un’accelerazione politica per uscire dallo stallo: in via d’urgenza la nuova Commissione dovrà avanzare proposte specifiche per attrarre fondi e risparmi degli europei, oggi impiegati spesso in altre aree globali a partire dagli Usa, per finanziare progetti “green”, nel settore digitale, nella difesa e quant’altro. Si parla di prodotti di investimenti/risparmio comuni, di fiscalità convergente, di consolidamento delle Borse, di effettiva vigilanza finanziaria comune. Tutte cose attualmente impossibili date la frammentazione del settore in mercati nazionali, la gelosa difesa delle prerogative di controllo da parte dei diversi stati. Anche questa è una frontiera decisiva in cui l’insistenza sulla difesa delle prerogative nazionali si è trasformata in un boomerang: i mercati dei capitali europei non sono in grado di supportare le necessità di finanziamento delle imprese e degli investimenti nella tripla transizione (verde, digitale, difesa/sicurezza) che richiede 800-1000 miliardi complessivamente ogni anno per diversi anni. Credito bancario e stati già molto indebitati non basteranno.

Naturalmente questa lista non è esaustiva: dell’”autonomia strategica” è parte integrante, per esempio, il commercio, snodo delle relazioni con la Cina e con gli Stati Uniti. Così come l’allargamento ai Balcani occidentali, all’Ucraina e alla Moldavia costituirà una sfida molto complessa sia per le implicazioni sulla sicurezza continentale e per gli effetti sulla ripartizione delle risorse europee, sia per la necessaria riforma dei meccanismi di funzionamento e decisione della Ue (già a 27 il diritto di veto costituisce un problema). I tempi dell’allargamento saranno lunghi, ma occorre prepararsi rapidamente.